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Книга «Анна Каренина» (Anna Karenina) на итальянском языке – читать онлайн

Роман «Анна Каренина» (Anna Karenina) на итальянском языке – читать онлайн, автор книги – Лев Толстой. Роман входит в список наиболее значимых произведений мировой литературы, был переведён почти на все самые распространённые языки мира, в том числе и на итальянский. Об актуальности книги «Анна Каренина» (Anna Karenina) свидетельствуют также десятки экранизаций, театральных постановок, мюзиклов и т.д.

 

В этой статье выложены первые 5 глав романа Льва Толстого «Анна Каренина» (Anna Karenina) на итальянском языке, в конце страницы будет ссылка на продолжение книги. Другие произведения мировой литературы на итальянском языке можно читать онлайн в разделе «Книги на итальянском».

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Теперь переходим к чтению книги «Анна Каренина» (Anna Karenina) на итальянском языке.

  

Anna Karenina

 

PARTE PRIMA

 

I.

 

Tutte le famiglie felici sono simili le une alle altre; ogni famiglia infelice è infelice a modo suo.

Tutto era sottosopra in casa Oblonskij. La moglie era venuta a sapere che il marito aveva una relazione con la governante francese che era stata presso di loro, e aveva dichiarato al marito di non poter più vivere con lui nella stessa casa. Questa situazione durava già da tre giorni ed era sentita tormentosamente dagli stessi coniugi e da tutti i membri della famiglia e dai domestici. Tutti i membri della famiglia e i domestici sentivano che non c’era senso nella loro convivenza, e che della gente incontratasi per caso in una qualsiasi locanda sarebbe stata più legata fra di sé che non loro, membri della famiglia e domestici degli Oblonskij. La moglie non usciva dalle sue stanze; il marito era già il terzo giorno che non rincasava. I bambini correvano per la casa abbandonati a loro stessi; la governante inglese si era bisticciata con la dispensiera e aveva scritto un biglietto ad un’amica chiedendo che le cercasse un posto; il cuoco se n’era già andato via il giorno prima durante il pranzo; sguattera e cocchiere avevano chiesto di essere liquidati.

Tre giorni dopo il litigio, il principe Stepan Arkad’ic Oblonskij — Stiva, com’era chiamato in società — all’ora solita, cioè alle otto del mattino, si svegliò non nella camera della moglie, ma nello studio, sul divano marocchino.

Rigirò il corpo pienotto e ben curato sulle molle del divano, come se volesse riaddormentarsi di nuovo a lungo, rivoltò il cuscino, lo abbracciò forte e vi appoggiò la guancia; ma a un tratto fece un balzo, sedette sul divano e aprì gli occhi.

“Già già, com’è andata? — pensava riandando al sogno. — Già, com’è andata? Ecco... Alabin aveva dato un pranzo a Darmstadt; no, non Darmstadt, ma qualcosa d’America. Già, ma là, Darmstadt era in America. Sì, sì, Alabin aveva dato un pranzo su tavoli di vetro, già, e i tavoli cantavano ‘Il mio tesoro’, eh no, non ‘Il mio tesoro’, ma qualcosa di meglio; e c’erano poi certe piccole caraffe, ed anche queste erano donne” ricordava.

Gli occhi di Stepan Arkad’ic presero a brillare allegramente ed egli ricominciò a pensare sorridendo: “Eh già, si stava bene, tanto bene. Ottime cose là; ma prova un po’ a parlarne e a pensarne; da sveglio neanche arrivi a dirle”. E, notata una striscia di luce che filtrava da un lato della cortina di panno, sporse allegramente i piedi fuori dal divano, cercò con essi le pantofole di marocchino dorato ricamategli dalla moglie (dono per l’ultimo suo compleanno), e per vecchia abitudine, ormai di nove anni, senza alzarsi, allungò il braccio verso il posto dove, nella camera matrimoniale, era appesa la vestaglia. E in quel momento, a un tratto, ricordò come e perché non dormiva nella camera della moglie, ma nello studio, il sorriso gli sparve dal volto; corrugò la fronte.

— Ahi, ahi, ahi! — mugolò, ricordando quanto era accaduto, e gli si presentarono di nuovo alla mente tutti i particolari del litigio, la situazione senza via di uscita e, più tormentosa di tutto, la propria colpa.

“Già, lei non perdonerà, non può perdonare. E quel ch’è peggio è che la colpa di tutto è mia... la colpa è mia, eppure non sono colpevole! Proprio in questo sta il dramma” pensava. “Ahi, ahi, ahi!” ripeteva con disperazione, ricordando le impressioni più penose per lui di quella rottura.

Più spiacevole di tutto il primo momento, quando, tornato da teatro, allegro e soddisfatto, con un’enorme pera in mano per la moglie, non l’aveva trovata nel salotto; con sorpresa non l’aveva trovata neanche nello studio, e infine l’aveva scorta in camera con in mano il malaugurato biglietto che aveva rivelato ogni cosa.

Lei, quella Dolly eternamente preoccupata e inquieta, e non profonda, come egli la giudicava, sedeva immobile, con il biglietto in mano, e lo guardava con un’espressione di orrore, d’esasperazione e di rabbia.

— Cos’è questo biglietto, cos’è? — chiedeva mostrando il biglietto.

E a quel ricordo, come talvolta accade, ciò che tormentava Stepan Arkad’ic non era tanto il fatto in se stesso, quanto il modo col quale egli aveva risposto alle parole della moglie.

Gli era accaduto in quel momento quello che accade alle persone che vengono inaspettatamente accusate di qualcosa di troppo vergognoso. Non aveva saputo adattare il viso alla situazione in cui era venuto a trovarsi di fronte alla moglie dopo la scoperta della propria colpa. Invece di offendersi, negare, giustificarsi, chiedere perdono, rimanere magari indifferente — tutto sarebbe stato meglio di quel che aveva fatto — il suo viso, in modo del tutto involontario (azione riflessa del cervello, pensò Stepan Arkad’ic, che amava la fisiologia), in modo del tutto involontario, aveva improvvisamente sorriso del suo usuale, buono e perciò stupido sorriso.

Questo stupido sorriso non riusciva a perdonarselo. Visto quel sorriso, Dolly aveva rabbrividito come per un dolore fisico; era scoppiata, con l’impeto che le era proprio, in un diluvio di parole dure, ed era corsa via di camera. Da quel momento non aveva più voluto vedere il marito.

“Tutta colpa di quello stupido sorriso — pensava Stepan Arkad’ic. — Ma che fare, che fare?” si chiedeva con disperazione, e non trovava risposta.

 

 

II.

 

Stepan Arkad’ic era un uomo leale con se stesso. Non poteva ingannare se stesso e convincersi d’essere pentito del suo modo di agire. Non poteva, in questo momento, pentirsi di non essere più innamorato — lui, bell’uomo trentaquattrenne, facile all’amore — di sua moglie, di un anno solo più giovane, madre di cinque bambini vivi e di tre morti. Era pentito solo di non averlo saputo nascondere più abilmente alla moglie. Ma sentiva tutto il peso di questa situazione e commiserava la moglie, i figli e se stesso. Forse avrebbe cercato di nascondere più accortamente le proprie colpe alla moglie, se avesse previsto che questa scoperta avrebbe agito tanto su di lei. A questo non aveva riflettuto mai con chiarezza; tuttavia, vagamente, si figurava che sua moglie, da tempo, indovinasse che egli non le era fedele e chiudesse un occhio. Gli sembrava inoltre che lei, donna esaurita, invecchiata, non più bella e per nulla affatto interessante, semplice, buona madre di famiglia soltanto, dovesse, per un senso di giustizia, essere indulgente. Era avvenuto il contrario.

“Ah, è terribile! Ahi, ahi, ahi, ahi! Terribile! — si ripeteva Stepan Arkad’ic e non riusciva a trovare una via d’uscita. — E come andava tutto bene prima d’ora! Come vivevamo bene! Lei era contenta, felice dei bambini; io non l’ostacolavo in nulla, la lasciavo libera di regolarsi come voleva, coi bambini, con la casa. È vero, non è bello che quella sia stata governante in casa nostra! Non è bello! C’è qualcosa di triviale, di volgare nel far la corte alla propria governante. Ma che governante! — e ricordò con vivezza il riso e gli occhi neri assassini di m.lle Rolland. — Del resto finché è stata in casa nostra, io non mi sono permesso nulla. E il peggio di tutto è che già... Ci voleva proprio tutto questo, neanche a farlo apposta! Ah, ahi, ahi! Ma che fare, che fare?”

Una risposta che non c’era all’infuori della risposta comune che dà la vita a tutte le più complicate e insolubili questioni, e la risposta è questa: bisogna vivere delle piccole necessità del giorno, smemorarsi. Nel sogno non è più possibile; almeno fino a stanotte, non si può tornare alla musica che cantavano le donne-caraffe; ci si deve dunque smemorare con il sonno della vita.

“Staremo a vedere” si disse Stepan Arkad’ic e, alzatosi, indossò la veste da camera grigia dalla fodera di seta azzurra, fermò i due lacci con un nodo, e introdotta aria a sazietà nella vasta cavità toracica, coll’usuale passo deciso dei suoi piedi all’infuori che così leggermente sostenevano il corpo pienotto, si avviò alla finestra, sollevò la tenda e sonò forte. Entrò subito il suo vecchio amico, Matvej il maggiordomo, che portava il vestito, le scarpe e un telegramma. Dietro a Matvej entrò anche il barbiere con l’occorrente per la barba.

— Ci sono carte d’ufficio? — chiese Stepan Arkad’ic dopo aver preso il telegramma, sedendosi di fronte allo specchio.

— Sulla tavola — rispose Matvej. Guardò interrogativamente, con interesse, il padrone, e, dopo aver atteso un poco, aggiunse con un sorriso ammaliziato:

— Sono venuti da parte del signor cocchiere.

Stepan Arkad’ic non rispose nulla e guardò soltanto Matvej nello specchio: nello sguardo che incrociarono era evidente come si intendessero l’un l’altro. Lo sguardo di Stepan Arkad’ic sembrava chiedere: “Perché dici questo?

che forse non sai?”. Matvej ficcò le mani nelle tasche del giubbetto, tirò indietro una gamba in silenzio, bonariamente, sorridendo appena, guardò il padrone.

— Ho detto loro di venire la prossima domenica, e che fino allora non si disturbino e non disturbino voi inutilmente — disse con una frase evidentemente già preparata.

Stepan Arkad’ic capì che Matvej voleva scherzare e attirare su di sé l’attenzione. Aperto il telegramma, lo lesse, correggendo per intuito le parole, come sempre alterate, e il viso gli si illuminò.

— Matvej, mia sorella Anna Arkad’evna viene domani — disse, arrestando per un attimo la mano lustra e grassoccia del barbiere che andava tracciando una via rosea tra le lunghe fedine ricciute.

— Sia lodato Iddio — disse Matvej, mostrando con la risposta di capire, allo stesso modo del padrone, il significato di questo arrivo, e che cioè Anna Arkad’evna, sorella carissima di Stepan Arkad’ic, poteva contribuire alla riconciliazione tra marito e moglie.

— Sola o col consorte? — chiese Matvej.

Stepan Arkad’ic, che non poteva parlare perché il barbiere era alle prese col labbro superiore, alzò un dito solo. Matvej fece cenno col capo nello specchio.

— Sola. C’é da preparare di sopra?

— Chiedilo a Dar’ja Aleksandrovna; dove dirà lei.

— A Dar’ja Aleksandrovna? — ripeté con aria dubbiosa Matvej.

— Sì, diglielo. Ecco, prendi il telegramma, riferiscimi poi.

“Volete provare” pensò Matvej, ma disse solo:

— Sissignore.

Stepan Arkad’ic era già lavato e pettinato e si preparava a vestirsi quando Matvej, camminando lentamente con le scarpe che scricchiolavano, rientrò nella stanza col telegramma in mano. Il barbiere era già andato via.

— Dar’ja Aleksandrovna ha ordinato di dirvi che parte. Che faccia pure come piace a lui, cioè a voi — disse, ridendo solo con gli occhi e, cacciate le mani in tasca e chinato il capo da un lato, fissò il padrone.

Stepan Arkad’ic tacque. Poi un sorriso buono e un po’ pietoso apparve sul suo bel viso.

— Eh, Matvej — disse, scotendo il capo.

— Non è nulla, signore; tutto si appianerà — disse Matvej.

— Si appianerà?

— Proprio così.

— Credi? Chi c’è di là? — chiese Stepan Arkad’ic sentendo dietro la porta un fruscio di abito femminile.

— Sono io, signore — disse una voce di donna, e di dietro la porta si sporse il viso severo e butterato di Matrëna Filimonovna, la njanja.

— E allora, Matrëna? — domandò Stepan Arkad’ic andandole incontro sulla porta. Sebbene Stepan Arkad’ic fosse per ogni verso colpevole di fronte alla moglie, ed egli stesso lo sentisse, quasi tutti in casa, persino la njanja, la più grande amica di Dar’ja Aleksandrovna, erano dalla parte sua.

— E allora? — disse con aria afflitta.

— Andate da lei, signore, dichiaratevi ancora colpevole. Forse Iddio lo concederà. Si tormenta molto ed è una pena guardarla, e poi tutto in casa va alla malora. Ci si deve preoccupare dei bambini, signore. Accusatevi, signore. Che fare? Fatto il male...

— Eh già, non mi riceverà...

— E voi fate il dover vostro. Dio è misericordioso, pregate Iddio, signore, pregate Iddio.

— E va bene; va’... — disse Stepan Arkad’ic, arrossendo improvvisamente.

— Su vestiamoci — disse rivolto a Matvej, e con fare deciso si tolse la veste da camera.

Matvej teneva in mano, soffiandovi sopra come a togliere qualcosa di invisibile, la camicia disposta a collare, e con evidente soddisfazione ne circondò il corpo ben curato del padrone.

 

 

III.

 

Vestitosi, Stepan Arkad’ic si spruzzò di profumo, assestò le maniche della camicia, distribuì per le tasche con gesti abituali le sigarette, il portafoglio, i fiammiferi, l’orologio con la catena doppia e i ciondoli e, spiegazzato il fazzoletto, sentendosi pulito, profumato, sano e, malgrado il suo guaio, fisicamente allegro, si avviò, tentennando leggermente su ciascuna gamba, verso la sala da pranzo dove già l’aspettavano il caffè e, accanto al caffè, le lettere e le carte del tribunale.

Lesse le lettere. Una era molto spiacevole: era del compratore del bosco di sua moglie. Il bosco doveva essere necessariamente venduto; ma ora, fino alla riconciliazione, non se ne poteva parlare. Più increscioso di tutto era il fatto che si veniva in tal modo a frammischiare una questione di denaro al prossimo avvenimento della riconciliazione. E il pensiero ch’egli potesse lasciarsi guidare da una questione di denaro, che per la vendita del bosco cercasse di far pace con la moglie, questo pensiero l’offendeva.

Letta la posta, Stepan Arkad’ic tirò a sé le carte d’ufficio: sfogliò in fretta due pratiche, segnò con un grosso lapis qualche annotazione e, allontanate le carte, cominciò a sorbire il caffè e nello stesso tempo, aperto il giornale della mattina, ancora umido, prese a leggerlo.

Stepan Arkad’ic riceveva e leggeva un giornale liberale, non estremista, ma della tendenza che la maggioranza sosteneva. Benché non lo interessassero in modo particolare né scienza, né arte, né politica, egli si atteneva strettamente alle opinioni alle quali, in tutte queste materie, si attenevano la maggioranza e il suo giornale, e le cambiava soltanto quando le cambiava la maggioranza, o per meglio dire non lui le cambiava, ma esse stesse, inavvertitamente, si cambiavano in lui.

Stepan Arkad’ic non sceglieva né le tendenze né le opinioni, ma queste stesse tendenze e opinioni giungevano a lui da sole, proprio allo stesso modo come non lui sceglieva la foggia del cappello o del soprabito, ma adottava quella che era di moda. E per lui, che viveva nella società più in vista, avere delle opinioni, oltre al bisogno di una certa attività di pensiero che normalmente si sviluppa negli anni della maturità, era così indispensabile come avere un  cappello. E anche se c’era una ragione per preferire la tendenza liberale a quella conservatrice, cui si atteneva la maggioranza del suo ambiente, questa consisteva non solo nel fatto che egli trovava la tendenza liberale più ragionevole, ma anche perché questa era in realtà più conforme al suo modo di vivere. Il partito liberale diceva che in Russia tutto andava male, ed in effetti Stepan Arkad’ic aveva molti debiti e il denaro non gli bastava proprio. Il partito liberale diceva che il matrimonio era un’istituzione superata ed era necessario riformarlo, e in realtà la vita familiare dava scarse soddisfazioni a Stepan Arkad’ic e lo costringeva a mentire e a fingere, il che era affatto avverso alla sua natura. Il partito liberale diceva, o meglio faceva intendere, che la religione era soltanto un freno per la parte incolta della popolazione, e in realtà Stepan Arkad’ic non poteva sopportare, senza che gli dolessero le gambe, neppure il più piccolo Te Deum, e non poteva capire che senso avessero tutte quelle tremende altisonanti parole sull’altro mondo, quando anche in questo era così piacevole vivere. Inoltre a Stepan Arkad’ic, che amava gli scherzi ameni, faceva piacere turbare talvolta qualche pacifico essere col dire, che se ci si vuole inorgoglire della razza, non conviene fermarsi a Rjurik e rinnegare il progenitore, la scimmia. Dunque le opinioni liberali erano divenute un’abitudine per Stepan Arkad’ic e gli piaceva il suo giornale, così come il sigaro dopo il pranzo, per quella leggera nebbia che gli generava in testa. Lesse l’articolo di fondo, nel quale si spiegava che «al tempo nostro del tutto invano si levan querele contro il radicalismo, il quale minaccia di inghiottire tutti gli elementi conservatori, e che il governo non si decide a prendere delle misure per soffocare l’idra rivoluzionaria; che al contrario, secondo la nostra opinione, il pericolo risiede non già nella presunta idra rivoluzionaria, ma nel tradizionalismo ostinato che rallenta il progresso» e così di seguito. Lesse anche un altro articolo, finanziario, nel quale si parlava del Bentham e dello Stuart Mill e si lanciavano frecciate al ministero. Con la prontezza di spirito che gli era propria egli afferrava il  senso di ogni frecciata: da chi veniva e contro chi era diretta e in quale occasione, e questo, come sempre, gli procurava un certo piacere. Ma oggi questo piacere era avvelenato dal ricordo dei consigli di Matrëna Filimonovna e dal fatto che in casa tutto andava tanto male. Lesse pure che il conte Beist, Home correva voce, era partito per Wiesbaden, e che si vendeva una carrozza leggera, e che una persona giovane faceva una proposta; ma queste notizie non gli davano più il solito tranquillo, ironico compiacimento di una volta.

Finito il giornale, la seconda tazza di caffè e la ciambellina al burro, s’alzò scrollando le briciole dal panciotto e, allargando il petto ampio, sorrise di piacere: non perché avesse in animo qualcosa di particolarmente lieto, ma solo perché la buona digestione gli procurava quel sorriso di gioia.

Ma quel sorriso di gioia gli fece tornare subito tutto in mente ed egli si fece pensieroso.

Due voci infantili (Stepan Arkad’ic riconobbe le voci di Griša, il più piccolo, e di Tanja, la maggiore) si udirono dietro la porta. Avevano trascinato e lasciato cadere qualcosa.

— Lo dicevo io che non si possono lasciar sedere i passeggeri sull’imperiale — gridava in inglese la bimba — ora, su, raccatta.

- «È tutto sottosopra — pensò Stepan Arkad’ic — ecco, i bambini scorrazzano da soli». E fattosi sulla porta, li chiamò. Essi lasciarono la scatola che rappresentava il treno ed entrarono dal padre.

La bimba, beniamina del padre, corse franca ad abbracciarlo e ridendo gli si appese al collo, rallegrandosi come sempre del noto profumo che si spandeva dalle sue fedine. Baciatolo infine sul volto arrossato per la posizione inclinata e raggiante di tenerezza, la bimba sciolse le braccia per scappar via, ma il padre la trattenne.

— E la mamma? — chiese passando la mano sul collo liscio e morbido della figlia. — Buongiorno — disse poi sorridendo al piccolo che salutava.

Aveva coscienza di amare meno il bambino e si sforzava di essere imparziale, ma il bambino lo sentiva e non sorrise al sorriso freddo del padre.

— La mamma? S’è alzata — rispose la bimba.

Stepan Arkad’ic sospirò. «Già; non avrà dormito tutta la notte» pensò.

— Ma è di buon umore?

La bambina sapeva che fra padre e madre c’era stata una certa questione e che la madre non poteva essere di buon umore; e il padre doveva saperlo, mentre ora fingeva, chiedendone con tanta disinvoltura. Arrossì per il padre. Egli capì subito e arrossì anche lui.

— Non so — disse. — Non ha detto di studiare, ha detto di andare a spasso con miss Hull dalla nonna.

— Su, va’, Tancurocka mia. Ah, già, aspetta — disse trattenendola ancora e guardandole la manina morbida.

Prese dal camino, là dove l’aveva messa il giorno prima, una scatola di dolci e gliene diede due, scegliendole i preferiti, uno di cioccolato e uno fondente.

— A Griša? — disse la bambina indicando quello di cioccolato.

— Sì, sì. — E accarezzando ancora una volta le piccole spalle, la baciò alla radice dei capelli e sul collo e la lasciò andare.

— La carrozza è pronta — disse Matvej. — C’è poi una persona che chiede di voi — aggiunse.

— È molto che è qui? — chiese Stepan Arkad’ic.

— Da una mezz’ora.

— Ma quante volte ti ho detto di annunziare subito!

— Bisogna pur darvi il tempo di prendere almeno il caffè — disse Matvej con quel tono fra il confidenziale e lo screanzato che non dava la possibilità di arrabbiarsi.

— Su, fa’ passare subito — disse Oblonskij aggrottando le sopracciglia dalla stizza.

La signora, moglie del capitano in seconda Kalinin, chiedeva una cosa assurda e sciocca; ma Stepan Arkad’ic, secondo la sua abitudine, la fece sedere, l’ascoltò con attenzione, senza interromperla, le consigliò dettagliatamente a chi e come dovesse rivolgersi, e le scrisse perfino alla svelta e bene, con la sua grossa, larga e bella scrittura chiara, un biglietto per la persona che avrebbe potuto aiutarla. Congedata la moglie del capitano in seconda, Stepan Arkad’ic prese il cappello e si fermò, cercando di ricordare se non avesse dimenticato qualcosa. Gli parve di non aver dimenticato nulla, fuorché quello che voleva dimenticare, la moglie.

«Ah, sì». Abbassò il capo e il suo bel viso prese un’aria afflitta. «Andare o non andare?» si diceva. E una voce interna gli diceva di non andare, che oltre a falsità non poteva esserci altro, che riparare, accomodare le loro relazioni non era più possibile, perché non era possibile rendere lei di nuovo attraente e capace di suscitare l’amore, e lui vecchio e incapace di amare. Dunque, oltre a falsità e menzogna, non ne poteva uscir fuori nulla, e la falsità e la menzogna erano avverse alla sua natura.

«Eppure prima o poi bisogna farlo; non si può restar così» disse, cercando di farsi coraggio. Raddrizzò il petto, tirò fuori una sigaretta, l’accese, ne aspirò due boccate, la gettò in un portacenere di madreperla a conchiglia, attraversò il salotto oscuro a passi svelti, e aprì l’altra porta che dava nella camera della moglie.

 

 

IV.

 

Dar’ja Aleksandrovna, in veste da notte, con le trecce ormai rade, un tempo folte e belle, appuntate alla nuca, col viso asciutto, affilato, e i grandi occhi spauriti che risaltavano nella magrezza del viso, stava in piedi in mezzo alle cose gettate alla rinfusa per la stanza, dinanzi a un armadio aperto dal quale sceglieva qualcosa. Udito il passo del marito, si fermò guardando la porta e cercando inutilmente di dare al viso un’espressione severa e sprezzante. Sentiva di aver paura di lui, paura dell’incontro imminente. Aveva tentato proprio allora di fare quello che aveva tentato già dieci volte in quei tre giorni: preparare la roba sua e dei bambini per trasportarla dalla madre, ma poi, di nuovo, non aveva saputo decidersi: eppure anche ora, come le altre volte, diceva a se stessa che così non poteva durare, che doveva fare qualcosa, punirlo, svergognarlo, vendicarsi almeno in minima parte del male che le aveva fatto. Si diceva ogni volta che lo avrebbe lasciato, ma sentiva che questo era impossibile; era impossibile perché non poteva disabituarsi a considerarlo suo marito e ad amarlo. Sentiva, inoltre, che se qui, in casa sua, riusciva appena ad aver cura dei suoi cinque bambini, la cosa sarebbe stata ancora più difficile là, dove sarebbe andata a stare con tutti loro. E proprio in quei tre giorni, il più piccolo si era ammalato perché gli avevano dato del brodo guasto, mentre il giorno innanzi gli altri erano quasi rimasti senza mangiare. Sentiva che non era possibile andar via; ma, ingannando se stessa, preparava la roba e si fingeva di partire.

Visto il marito, tuffò la mano in un cassetto dell’armadio, come se cercasse qualcosa, e girò lo sguardo su di lui solo quando le fu proprio accanto. Ma il viso al quale aveva voluto dare un’espressione severa e decisa, esprimeva smarrimento e pena.

— Dolly! — disse lui con voce timida e sommessa. Aveva ritirato la testa nelle spalle e voleva avere un’aria afflitta e contrita, ma suo malgrado, raggiava freschezza e salute.

Con un’occhiata rapida dalla testa ai piedi ella notò la figura di lui raggiante freschezza e salute. « Già, lui è felice e soddisfatto — pensò — e io? E anche questa bontà disgustosa, che lo fa amare e lodare da tutti, io la detesto questa sua bontà» pensò. La bocca le si contrasse, il muscolo della guancia prese a tremare dalla parte destra del viso pallido e nervoso.

— Che vi occorre? — disse con voce affrettata, sorda, non sua.

— Dolly! — ripeté lui con un fremito nella voce. — Anna arriva oggi.

— Ebbene, a me che importa? Io non posso riceverla! — gridò lei.

— Eppure, Dolly...

— Andate via, andate via — gridò senza guardarlo, come se questo grido fosse provocato da un male fisico.

Stepan Arkad’ic aveva potuto rimaner tranquillo quando aveva pensato a sua moglie, aveva potuto sperare che tutto si sarebbe «appianato», così come diceva Matvej, aveva potuto leggere tranquillamente il giornale e bere il caffè; ma quando vide il viso tormentato e dolente di lei, quando udì quel tono di voce rassegnato e affranto, il respiro gli si mozzò, qualcosa gli venne alla gola e gli occhi gli brillarono di lacrime.

— Dio mio, che ho fatto! Dolly! Per amor di Dio... Del resto... — ma non poté continuare: un singhiozzo gli si era fermato in gola. Ella sbatté l’armadio e si voltò a guardarlo. — Dolly, cosa posso dire? Solo una cosa: perdona, perdona... Ricorda... nove anni di vita non possono forse far perdonare un minuto, un minuto...

Ella aveva abbassato gli occhi e ascoltava quello ch’egli stava per pronunciare, quasi supplicandolo di dire qualcosa che potesse dissuaderla.

— Un minuto di esaltazione — riprese a dire lui, e voleva continuare, ma a questa parola, come per un male fisico, a lei si strinsero i denti e di nuovo il muscolo della guancia prese a tremare dalla parte destra del viso.

— Andate via, andate via! — gridò con voce ancora più tagliente — e non mi venite a parlare delle vostre esaltazioni e delle vostre sconcezze!

Voleva andar via, ma vacillò e si aggrappò alla spalliera della sedia per sorreggersi. Il viso di lui si dilatò, le labbra si gonfiarono, gli occhi si riempirono di lacrime.

— Dolly! — pronunziò ormai singhiozzando. — In nome di Dio, pensa ai bambini, loro non sono colpevoli. Sono io il colpevole, e tu puniscimi, ordinami di scontare la mia pena. In quello che posso, sono pronto a tutto! Sono colpevole, non ci sono parole, come sono colpevole! Ma, Dolly, perdona!

Ella si mise a sedere. Egli sentiva il respiro grave di lei e gliene veniva una pena indicibile. Più volte ella si provò a parlare, ma non poté. Egli aspettava.

— Tu ti ricordi dei bambini per giocare con loro, mentre io sì che me ne ricordo, e lo so oramai che sono rovinati — disse lei, usando evidentemente una delle frasi che in quei tre giorni s’era ripetuta più d’una volta.

Gli aveva parlato col «tu», ed egli la guardò riconoscente, e si mosse per prenderle una mano, ma lei si scostò con avversione.

— Io mi ricordo dei bambini e farei di tutto al mondo per salvarli, ma non so io stessa come salvarli: se sottrarli al padre o abbandonarli a un padre depravato. Sì, depravato... Eh sì, ditemi voi, dopo quello... che c’è stato, è forse possibile vivere insieme? È possibile forse? Dite voi, è possibile? — ripeté alzando la voce.

— Dopo che mio marito, il padre dei miei figli ha una relazione con la governante dei suoi bambini...

— Ma che fare, che fare? — diceva lui con voce pietosa, non sapendo egli stesso che dire e abbassando sempre più il capo.

— Mi fate ribrezzo, disgusto! — gridò lei, riscaldandosi ancora di più. — Le vostre lacrime cosa sono? acqua! Non mi avete mai amata, non avete cuore, non siete generoso! Siete vile, abietto, mi siete estraneo, sì, del tutto estraneo — e pronunziò la parola «estraneo», per lei terribile, con pena e rancore.

Egli la guardò e l’odio che appariva sul viso di lei lo sgomentò e sorprese. Non capiva che quella sua pietà verso di lei la irritava, perché vedeva in lui la compassione, ma non l’amore. «Mi odia — pensò. — Non perdonerà».

— È terribile, è terribile — disse.

Nel frattempo, nella stanza accanto, probabilmente perché caduto, un bimbo si mise a gridare: Dar’ja Aleksandrovna tese l’orecchio, e il viso d’un tratto le si raddolcì.

Parve rientrare in sé per qualche istante e, come se non sapesse dov’era e cosa stesse facendo, si alzò in fretta e si avviò alla porta.

«Ma allora vuol sempre bene al mio bambino — pensò lui, avendo notato il mutar del viso al grido del piccolo — al mio bambino; e come può odiare tanto me?».

— Dolly, ancora una parola — disse seguendola.

— Se mi seguite, chiamerò gente, i bambini! Che tutti sappiano che siete un mascalzone! Me ne vado oggi stesso e voi restate pure qua a vivere con la vostra amante!

E uscì, sbattendo la porta.

Stepan Arkad’ic sospirò, si asciugò il viso e a passi lenti si avviò per uscire. «Matvej dice che si appianerà; ma come? Io non ne vedo neppure la possibilità. Ahi, ahi, che orrore! E come gridava, e in che modo triviale! — diceva a se stesso ricordando le grida e le parole ‘mascalzone’ e ‘amante’. — E forse le ragazze hanno sentito! Terribilmente triviale, terribilmente». Stepan Arkad’ic si fermò per qualche istante, si asciugò gli occhi, sospirò e, raddrizzato il busto, uscì dalla camera.

Era venerdì, e nella sala da pranzo l’orologiaio tedesco dava corda all’orologio. Stepan Arkad’ic si ricordò della sua battuta di spirito su quell’orologiaio calvo e preciso: «Il tedesco è stato caricato per tutta la vita per caricare orologi» e sorrise. A Stepan Arkad’ic piaceva una bella battuta. «Ma forse davvero tutto ‘si appianerà’! Bella frase: ‘si appianerà’ — pensò. — Bisogna farla circolare».

— Matvej! — chiamò. — Prepara tutto con Mar’ja per Anna Arkad’evna, di là nel salotto — disse a Matvej che era apparso.

— Sissignore.

Stepan Arkad’ic infilò la pelliccia e uscì fuori.

— Non pranzerete a casa? — chiese Matvej, accompagnandolo.

— Non so, come capiterà. Ecco, prendi per la spesa — disse dandogli dieci rubli dal portafoglio. — Basta?

— Basti o non basti, ci si deve rigirare — rispose Matvej, sbattendo lo sportello e indietreggiando verso l’ingresso.

Dar’ja Aleksandrovna intanto, acquietato il bambino e capito, dal rumore della carrozza, ch’egli se n’era andato, tornò di nuovo in camera. Era l’unico suo rifugio dalle cure familiari che la opprimevano non appena ne usciva fuori. E anche ora, in quei pochi momenti che aveva passato nella camera dei bambini, la governante inglese e Matrëna Filimonovna si erano affrettate a farle alcune domande che non ammettevano indugio e alle quali solo lei poteva rispondere: cosa mettere indosso ai bambini per andare a spasso, dare o no il latte, mandare a chiamare oppure no un altro cuoco.

— Ah, lasciatemi, lasciatemi! — aveva detto e, tornata in camera, si era seduta di nuovo là dove aveva parlato col marito, stringendo le mani smagrite con gli anelli che scivolavano dalle dita ossute, e aveva cominciato a ripensare a tutto il colloquio avvenuto. «È andato via. Ma l’ha finita poi con quella? Possibile che la veda ancora? Perché non gliel’ho chiesto? No, no, non ci si può riunire. E anche se dovessimo restare nella stessa casa, saremmo estranei. Per sempre estranei! — ripeté di nuovo, e con particolare significato, questa parola per lei terribile. — E come l’ho amato, Dio mio, come l’ho amato! E ora, non l’amo forse? Non l’amo forse più di prima? È terribile, soprattutto il fatto che...» cominciò, ma non finì il pensiero, che già Matrëna Filimonovna si era affacciata alla porta.

— Su via, mandate a chiamare mio fratello — disse — almeno preparerà il pranzo; se no, come ieri, fino alle sei i bambini non avran mangiato.

— Va bene, vengo, vengo a dare gli ordini. Non hanno mandato a prendere il latte fresco?

E Dar’ja Aleksandrovna s’ingolfò nelle cure del giorno, e per un po’ sommerse in esse la sua pena.

 

 

V.

 

Stepan Arkad’ic a scuola aveva studiato bene, grazie alle sue buone capacità, ma, pigro e svagato, aveva finito gli studi tra gli ultimi. Tuttavia, pur conducendo una vita sempre scapestrata, in età ancor giovane, con un titolo modesto, aveva ottenuto il posto ragguardevole e ben retribuito di capo di uno degli uffici amministrativi di Mosca. Aveva avuto questo posto per mezzo del marito di Anna, Aleksej Aleksandrovic Karenin, il quale occupava uno dei più alti gradi nel ministero a cui apparteneva l’ufficio; ma se Karenin non avesse designato suo cognato a quel posto, Stiva Oblonskij, per mezzo di un centinaio di alti personaggi, fratelli, sorelle, prozii, zii, zie, avrebbe avuto quel posto o altro equivalente con quei seimila rubli di stipendio che gli erano necessari, perché i suoi affari, malgrado la considerevole proprietà della moglie, andavano male.

Una buona metà della società di Mosca e Pietroburgo era in relazioni di parentela o di amicizia con Stepan Arkad’ic. Egli era nato nella cerchia di coloro che erano o erano in seguito diventati i potenti di quel mondo. Un terzo dei funzionari di stato, i vecchi, erano amici di suo padre e lo avevano visto nascere; un altro terzo gli davano del «tu» e un terzo ancora erano suoi buoni conoscenti. Pertanto, i dispensatori di beni terreni sotto forma di posti, appalti, concessioni e cose simili, erano tutti amici suoi e non avrebbero mai lasciato fuori uno dei loro. Così Oblonskij non aveva dovuto brigare per ottenere un posto vantaggioso; gli era bastato non rifiutare, non avere invidie, non leticare, non offendersi, cose tutte ch’egli neppure faceva per quella bonarietà che gli era propria. Gli sarebbe parso ridicolo se gli avessero detto che non avrebbe ottenuto un posto retribuito con lo stipendio che gli era necessario, dal momento che non pretendeva niente di eccezionale, ma voleva solo quello che avevano gli altri suoi coetanei quando, non peggio di chiunque altro, egli era in grado di adempiere una funzione di tal genere.

A Stepan Arkad’ic volevano bene tutti quelli che lo conoscevano non solo per quel suo carattere buono e gioviale e per la sua indubbia onestà, ma perché in quel suo bell’aspetto luminoso, negli occhi splendenti, nelle sopracciglia e nei capelli neri, nel colorito bianco e rosso del viso vi era qualcosa che agiva in modo cordiale e festoso sul fisico delle persone che lo incontravano. «Oh, Stiva! Oblonskij! Eccolo!» dicevano quasi sempre con un sorriso di gioia, incontrandolo. E anche se talvolta ci si rendeva conto che, dopo una conversazione con lui, non succedeva nulla di particolarmente gioioso, l’indomani, due giorni dopo, tutti di nuovo si rallegravano nell’incontrarlo, proprio allo stesso modo.

Occupando già da tre anni il posto di capo di uno degli uffici amministrativi di Mosca, Stepan Arkad’ic aveva conquistato, oltre la simpatia, la stima dei colleghi, dei dipendenti, dei superiori, e di tutti coloro che avevano a che fare con lui. Le principali qualità che gli procuravano la stima generale in ufficio consistevano, in primo luogo, in una straordinaria indulgenza verso gli altri, basata sulla coscienza dei propri difetti; in secondo luogo, in un grande liberalismo, non quello di cui leggeva nei giornali, ma quello ch’egli aveva nel sangue e che gli faceva trattare perfettamente allo stesso modo tutte le persone, di qualunque classe o condizione fossero; e in terzo luogo, e questa era la cosa più importante, in un’assoluta indifferenza verso gli affari che trattava, per cui non se ne appassionava mai e non commetteva errori.

Arrivato in ufficio, Stepan Arkad’ic, accompagnato da un usciere ossequioso che gli portava la cartella, passò nel suo gabinetto particolare, indossò la divisa ed entrò in aula. Gli scrivani e gli impiegati si alzarono tutti, salutandolo con rispetto e giovialità. Stepan Arkad’ic, in fretta come sempre, andò al proprio posto, strinse la mano ai colleghi e sedette. Scherzò e discorse proprio quel tanto che era conveniente, e cominciò il lavoro. Nessuno più di Stepan Arkad’ic sapeva con maggiore precisione il limite tra la cordialità confidenziale e il tono ufficiale, così necessario al piacevole disbrigo degli affari. Il segretario, con giovialità e rispetto, come del resto tutti nell’ufficio di Stepan Arkad’ic, gli si accostò con alcune carte e riferì con quel tono familiarmente libero che era stato introdotto da Stepan Arkad’ic.

— Siamo riusciti così ad avere notizie dell’amministrazione provinciale di Penza. Ecco, non vi piacerebbe...

— Le avete avute finalmente — prese a dire Stepan Arkad’ic, fermando col dito la carta. — Allora, signori... — E la seduta cominciò.

«Se sapessero — pensava chinando la testa con aria d’importanza nell’ascoltare il rapporto — che ragazzo colpevole era mezz’ora fa il loro capo!». E gli occhi gli ridevano alla lettura del rapporto. La seduta doveva durare fino alle due, senza interruzione; alle due, intervallo e colazione.

Non erano ancora le due quando la grande porta a vetri dell’aula si aprì improvvisamente e qualcuno entrò. Tutti i membri ritratti sotto il ritratto dell’imperatore e al di là dello specchio a tre facce, lieti della distrazione, si voltarono a guardare verso la porta; ma l’usciere che stava all’ingresso respinse subito colui che s’era infilato e richiuse la porta a vetri.

Quando tutto il rapporto fu letto, Stepan Arkad’ic si alzò stiracchiandosi e, pagando il proprio tributo al liberalismo dell’epoca, tirò fuori, ancora nell’aula, una sigaretta, e si avviò nel suo ufficio. Due colleghi, il vecchio funzionario Nikitin e il gentiluomo di camera Grinevic, uscirono con lui.

— Dopo colazione arriveremo a finire — disse Stepan Arkad’ic.

— Altro che arriveremo! — disse Nikitin.

— Ma deve essere un furbo matricolato quel Fomin — disse Grinevic accennando a un personaggio implicato nell’affare di cui si discuteva.

Alle parole di Grinevic Stepan Arkad’ic si accigliò, facendo capire con questo che non era corretto dare un giudizio prima del tempo, e non rispose nulla.

— Chi è entrato? — chiese all’usciere.

— Un tale, eccellenza, senza chiedere permesso, s’è fissato dentro appena mi sono girato. Domandava di voi. Io dico: quando usciranno i membri, allora...

— Dov’è?

— È forse uscito nell’ingresso, non faceva che camminare. Eccolo — disse l’usciere, indicando un uomo di costituzione forte, largo di spalle, con la barba ricciuta, il quale, senza togliersi il berretto di montone, saliva lesto e leggero i gradini consumati della scala di pietra. Uno di quelli che scendevano, un impiegato magrolino con una cartella sotto il braccio, fermatosi, guardò con riprovazione le gambe di colui che correva e fissò interrogativamente Oblonskij.

Stepan Arkad’ic era dritto in cima alla scala. Il suo viso bonario, che splendeva emergendo dal bavero ricamato dell’uniforme, s’illuminò ancor più quando riconobbe chi correva.

— Ma è proprio lui! Levin, finalmente! — esclamò con un sorriso cordialmente canzonatorio, guardando Levin che gli si avvicinava. — Com’è che non hai disdegnato di venirmi a pescare in quest’antro? — disse Stepan Arkad’ic baciando l’amico, non contento di una stretta di mano. — Sei qui da un pezzo?

— Sono arrivato or ora, e avevo una gran voglia di vederti — rispose Levin, guardandosi attorno timido e, nello stesso tempo, inquieto e contrariato.

— Su, andiamo nel mio gabinetto — disse Stepan Arkad’ic, conoscendo la timidezza ombrosa e scontrosa dell’amico; e, presolo per un braccio, lo trascinò dietro di sé come per guidarlo in mezzo ai pericoli.

Stepan Arkad’ic si dava del «tu» con quasi tutti i suoi conoscenti: coi vecchi di sessant’anni, coi ragazzi di venti; con gli attori, coi ministri, coi negozianti e con gli aiutanti generali; così che molti di quelli che gli davano del «tu» si trovavano ai due punti estremi della scala sociale, e molti si sarebbero stupiti nel constatare di avere qualcosa di comune per mezzo di Oblonskij. Egli dava del «tu» a tutti quelli con i quali beveva lo champagne, e di champagne ne beveva con tutti; perciò, incontrandosi in presenza dei suoi dipendenti con i suoi «tu» vergognosi, come chiamava scherzando molti amici, sapeva diminuire, con quel tatto che gli era proprio, la spiacevolezza dell’impressione che potevano riportarne i dipendenti. Levin non era un «tu» vergognoso, ma Oblonskij intuì che Levin pensava ch’egli potesse non desiderare di mostrare la propria intimità con lui dinanzi ai propri dipendenti, e perciò si affrettò a condurlo nel proprio gabinetto.

Levin era quasi della stessa età di Oblonskij e si davano del «tu» non solo per lo champagne. Levin gli era compagno e amico di prima giovinezza. Si volevano bene, malgrado la diversità dei caratteri e dei gusti, così come si vogliono bene gli amici incontratisi nella prima giovinezza. Malgrado ciò, come capita spesso fra persone che hanno scelto generi diversi di attività, ciascuno di loro, pur giustificando col ragionamento l’attività dell’altro, finiva col disprezzarla dentro di sé. A ciascuno sembrava che la vita che egli stesso conduceva fosse la vera vita, mentre l’altra, quella che conduceva l’amico, non ne fosse che la parvenza. Oblonskij non poteva trattenere un lieve riso canzonatorio alla vista di Levin. L’aveva visto già varie volte arrivare a Mosca dalla campagna dove faceva qualcosa; che cosa facesse precisamente, Stepan Arkad’ic non aveva mai potuto capir bene e non se ne curava. Levin veniva a Mosca sempre agitato, frettoloso, un po’ timido e urtato da questa timidezza, e quasi sempre con delle vedute nuove e inaspettate su tutte le cose. Stepan Arkad’ic ne rideva e se ne compiaceva. Nello stesso preciso modo Levin disprezzava dentro di sé il modo di vivere cittadino dell’amico e quel suo impiego che considerava sciocco e vuoto, e ci rideva su. Ma la differenza consisteva in questo: Oblonskij, facendo quello che fanno tutti, rideva con sicurezza e bonarietà, Levin, invece, senza sicurezza e, a volte, con dispetto.

— Ti aspettavamo da tempo — disse Stepan Arkad’ic entrando nello studio e lasciando il braccio di Levin come a dire che là non c’erano più pericoli.

— Sono molto contento di rivederti. Ebbene, come va? Quando sei arrivato?

Levin taceva, sbirciando le due facce dei colleghi di Oblonskij che non conosceva, e in particolar modo dell’elegante Grinevic dalle dita affilate e bianche, e dalle unghie così lunghe, gialle e ricurve in punta, e dai gemelli della camicia così grossi e luccicanti che queste mani, evidentemente, avevano assorbito tutta la sua attenzione e non gli davano libertà di pensiero. Oblonskij lo notò subito, e sorrise.

— Ah, già, permettete che vi presenti — disse. — I miei colleghi Filipp Ivanovic Nikitin e Michail Stanislavic Grinevic — e, rivolto verso Levin: — Il fautore del consiglio distrettuale, l’uomo nuovo del consiglio, il ginnasta che solleva con una mano sola cinque pudy, l’allevatore di bestiame, il cacciatore, nonché amico mio, Konstantin Levin, fratello di Sergej Ivanyc Koznyšev.

— Molto piacere — disse il vecchietto.

— Ho l’onore di conoscere vostro fratello Sergej Ivanyc — disse Grinevic porgendo la mano affilata dalle unghie lunghe.

Levin si accigliò, strinse la mano e si rivolse subito a Oblonskij. Pur avendo una grande considerazione per il fratellastro, scrittore noto in tutta la Russia, non poteva sopportare che ci si rivolgesse a lui, non come Konstantin Levin ma come al fratello del famoso Koznyšev.

— No, non sono più consigliere distrettuale. Ho litigato con tutti, e non vado più alle riunioni — disse a Oblonskij.

— Hai fatto presto, però!— disse Oblonskij con un sorriso. — Ma come, perché?

— È una storia lunga. Una volta o l’altra te la racconterò — disse Levin prendendo però subito a raccontarla. — Ecco, per dirla in breve, mi sono convinto che non c’è e non può esserci alcuna attività distrettuale; — cominciò come se qualcuno l’avesse offeso allora allora: — da una parte è un giuoco; si giuoca al parlamento, ed io non sono abbastanza giovane, né abbastanza vecchio per divertirmi coi balocchi; dall’altra — e qui balbettò — è un mezzo per guadagnare denaro per la coterie del distretto. Prima c’erano le tutele, i tribunali, ora invece c’è il consiglio distrettuale; non è una forma di subordinazione, ma una forma di stipendio non meritato — disse con tanto calore come se qualcuno dei presenti avversasse la sua opinione.

— Eh! Ma tu, a quanto vedo, sei ancora in una nuova fase, in quella conservatrice — disse Stepan Arkad’ic. — Ma, del resto, di questo parleremo dopo.

— Sì, dopo. Ma io avevo bisogno di vederti — disse Levin, fissando con antipatia la mano di Grinevic.

Stepan Arkad’ic sorrise appena percettibilmente.

— Be’, dicevi che mai più ti saresti messo un vestito all’europea? — disse guardandogli il vestito nuovo, fatto evidentemente da un sarto francese.

— Eh, già, vedo, siamo in una fase nuova.

Levin arrossì improvvisamente, ma non come arrossiscono le persone adulte, leggermente, senza avvertirlo, ma come arrossiscono i ragazzi quando sentono d’essere ridicoli con la loro timidezza e, vergognandosene, arrossiscono ancora di più fin quasi alle lacrime. Ed era così strano vedere quel viso intelligente, maschio diventare così infantile, che Oblonskij smise di guardarlo.

— E allora, dove ci vediamo? Ho molto bisogno di parlarti — disse Levin.

Oblonskij si mise a riflettere.

— Ecco, andiamo a far colazione da Gurin e parleremo là. Fino alle tre son libero.

— No — rispose Levin dopo aver pensato un po’; — devo ancora andare in giro.

— Su via, andiamo a pranzare insieme.

— Pranzare? Ma io non ho bisogno di niente di straordinario, solo due parole; devo farti una domanda, e a chiacchierare ci penseremo poi.

— E allora, dille subito queste due parole, così a pranzo chiacchiereremo.

— Eccole, le due parole; — disse Levin — del resto, niente di straordinario.

E la sua faccia prese a un tratto un’espressione cattiva, dovuta allo sforzo fatto per vincere la propria timidezza.

— Che fanno gli Šcerbackij? Tutto come prima? — disse.

— Tu hai detto due parole, ma io non posso rispondere con due parole, perché... Scusami un momento...

Era entrato il segretario che, con la deferenza familiare e la modesta consapevolezza, comune a tutti i segretari, della propria superiorità, rispetto al capo, nella conoscenza degli affari, si era avvicinato con le carte a Oblonskij e, con aria interrogativa, aveva cominciato a esporre una certa difficoltà. Stepan Arkad’ic, senza finir di ascoltare, pose affabilmente una mano sulla manica del segretario.

— No, fate come già vi ho detto — disse addolcendo con un sorriso l’osservazione e, spiegato in breve come intendeva l’affare, allontanò le carte e disse: — Fate così, vi prego, così, Zachar Nikitic.

Il segretario, confuso, si allontanò. Levin, che durante il colloquio con il segretario aveva avuto modo di rimettersi completamente, stava in piedi, poggiando tutte e due le mani ad una sedia, e sul suo viso vi era un’attenzione ilare.

— Non capisco, non capisco — diceva.

— Cosa non capisci? — chiese Oblonskij sorridendo anche lui allegramente e tirando fuori una sigaretta. Si aspettava da Levin qualche uscita strana.

— Non capisco quello che fate — disse Levin alzando le spalle. — Come puoi prendere tutto questo sul serio?

— Perché?

— Ma perché qui non avete nulla da fare.

— Tu credi così, ma noi siamo sovraccarichi di lavoro.

— Scartoffie! Già, ma tu ci sei tagliato per questo — aggiunse Levin.

— Allora tu credi che io manchi di qualcosa?

— Forse sì — disse Levin. — Tuttavia ammiro la tua importanza e sono orgoglioso di avere un così grand’uomo per amico. Ma tu non hai risposto alla mia domanda — aggiunse guardando Oblonskij con uno sforzo disperato, diritto negli occhi.

— E va bene, e va bene. Aspetta un po’ e arriverai a questo anche tu.

Finché hai tremila desjatiny nel distretto di Karazin e questi muscoli e la freschezza di una ragazzina di dodici anni, va tutto bene, ma poi ci arriverai anche tu. Già, ecco, a proposito di quello che mi chiedevi; nessun cambiamento, ma peccato che tu sia stato lontano tanto tempo.

— Perché? che c’è? — chiese Levin spaventato.

— No, nulla — rispose Oblonskij. — Ne riparleremo. Ma tu per quale particolare motivo sei venuto?

— Ah, di questo parleremo poi — disse Levin, arrossendo di nuovo fino alle orecchie.

— Su, va bene, ho capito — disse Stepan Arkad’ic. — Vedi: ti avrei invitato a casa, ma mia moglie non sta bene. Ecco, però; se le vuoi vedere, oggi sono certamente al giardino zoologico, dalle quattro alle cinque. Kitty va a pattinare. Tu va’ là; io passerò, e andremo a pranzare insieme in qualche posto.

— Benissimo, arrivederci, allora.

— Guarda, io ti conosco; tu sei capace di scordartene o di partirtene subito per la campagna! — rise Stepan Arkad’ic.

— No, certamente.

E dopo essersi ricordato di non aver salutato i colleghi di Oblonskij soltanto quand’era già sulla porta, Levin uscì dall’ufficio.

— Deve essere un proprietario pieno di energia — disse Grinevic, quando Levin fu uscito.

— Sì, amico mio — disse Stepan Arkad’ic annuendo col capo — ecco un uomo felice! Tremila desjatiny nel distretto di Karazin, tutto davanti a sé e quanta vitalità! Non così noi!

— Perché vi lamentate, Stepan Arkad’ic?

— Va male, proprio male — disse Stepan Arkad’ic sospirando pesantemente.

 

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