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Книга «Джейн Эйр» (Jane Eyre) на итальянском - читать онлайн

Книга «Джейн Эйр» (Jane Eyre) на итальянском языке читать онлайн, автор – Шарлотта Бронте. Этот роман был написан ещё в середине 19-го века, стал классикой своего жанра, и был переведён практически на все самые распространённые языки мира (причём в некоторых языках есть не один вид перевода), в том числе и на итальянский язык. Книга «Джейн Эйр» была много раз экранизирована, что лишь подтверждает её популярность – классика не стареет Улыбка.

На этой странице выложены первые 3 главы книги «Джейн Эйр» (Jane Eyre) на итальянском языке, в конце страницы будет ссылка на продолжение наиболее известного романа Шарлотты Бронте.

Другие романы, повести, рассказы на итальянском языке можно читать онлайн в разделе «Книги на итальянском».

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Jane Eyre

 

PARTE PRIMA

 

I.

 

In quel giorno era impossibile passeggiare. La mattina avevamo errato per un'ora nel boschetto spogliato di foglie, ma dopo pranzo (quando non vi erano invitati, la signora Reed desinava presto), il vento gelato d'inverno aveva portato seco nubi così scure e una pioggia così penetrante, che non si poteva pensare a nessuna escursione.

Ne ero contenta. Non mi sono mai piaciute le lunghe passeggiate, sopra tutto col freddo, ed era cosa penosa per me di tornar di notte con le mani e i piedi gelati, col cuore amareggiato dalle sgridate di Bessie, la bambinaia, e con lo spirito abbattuto dalla coscienza della mia inferiorità fisica di fronte a Eliza, a John e a Georgiana Reed.

Eliza, John e Georgiana erano aggruppati in salotto attorno alla loro mamma; questa, sdraiata sul sofà accanto al fuoco e circondata dai suoi bambini, che in quel momento non questionavano fra loro né piangevano, pareva perfettamente felice. Ella mi aveva proibito di unirmi al loro gruppo, dicendo che deplorava la necessità in cui trovavasi di tenermi così lontana, ma che fino al momento in cui Bessie non guarentirebbe che mi studiavo di acquistare un carattere più socievole e più infantile, maniere più cortesi e qualcosa di più radioso, di più aperto, di più sincero, non poteva concedermi gli stessi privilegi che ai bambini allegri e soddisfatti.

— Che cosa vi ha detto Bessie di nuovo sul conto mio? — domandai.

— Jane, non mi piace di essere interrogata. Sta male, del resto, che una bimba tratti così i suoi superiori. Sedetevi in qualche posto e state buona fino a quando non saprete parlare ragionevolmente.

Una piccola sala da pranzo metteva nel salotto, andai in quella pian piano. Vi era una biblioteca e io m'impossessai di un libro, cercando che fosse ornato d'incisioni.

Mi collocai allora nel vano di una finestra, sedendomi sui piedi come i turchi, e tirando la tenda di damasco rosso, mi trovai rinchiusa in un doppio ritiro.

Le larghe pieghe della cortina scarlatta mi nascondevano tutto ciò che era alla mia destra: alla mia sinistra una invetriata mi proteggeva, ma non mi separava da una triste giornata di novembre.

Di tanto in tanto, sfogliando il libro, gettavo un'occhiata al difuori e studiavo l'aspetto di quella serata d'inverno; in lontananza si scorgeva una pallida striscia di nebbia con nuvole, più vicino alberi bagnati, piante sradicate dal temporale e, infine, una pioggia incessante, che lunghe e lamentevoli ventate respingevano sibilando.

Tornavo allora al mio libro; era «La storia degli uccelli dell'Inghilterra», scritta da Berwich. In generale non mi occupavo del testo, nondimeno c'erano delle pagine d'introduzione che non potevo lasciar passare inosservate, malgrado la mia gioventù.

Esse parlavano di quei rifugi degli uccelli marini, di quei promontori, di quelle rocce deserte abitate da essi soli, di quelle coste della Norvegia sparse d'isole dalla più meridionale punta al capo più nordico, là dove "l'Oceano Polare mugge in vasti turbini attorno all'isola arida e malinconica di Tule, là ove il mare Atlantico si precipita in mezzo alle Ebridi tempestose."

Non potevo neppure saltare la descrizione di quei pallidi paesaggi della Siberia, dello Spitzberg, della Nuova-Zembla, dell'Islanda, della verde Finlandia!

Ero assorta nel pensiero di quella solitudine della zona artica, di quelle immense regioni abbandonate, di quei serbatoi di ghiaccio, ove i campi di neve accumulati durante gli inverni di molti secoli, ammucchiano montagne su montagne per circondare il polo e vi concentrano tutti i rigori del freddo più intenso.

Mi ero formata un'idea tutta mia di quei regni pallidi come la morte, idea vaga, come sono tutte le cose capite per metà, che fluttuano nella testa dei bimbi; ma quella che mi figuravo produceva in me uno strano effetto. In quella introduzione il testo, accordandosi con le figure, dava un significato allo scoglio isolato in mezzo a un mare di onde e di spuma, alla nave gettata su una costa desolata, alla fredda e fantastica luna, che, spingendo i suoi raggi luminosi attraverso un cumulo di nubi, illuminava appunto un'altra scena di naufragio. Io non potrei dire quale sentimento animasse il tranquillo e solitario cimitero, con le sue lapidi, le sue cancellate, i due alberi e l'orizzonte limitato dal muro rotto e la luna crescente che indicava l'ora della sera.

Le due navi, in quel mare immobili, mi parevano due fantasmi marini. Sfogliai sollecitamente la figura che rappresenta il mortale nemico, inchiodando il fardello sulla schiena del ladro; era per me un soggetto di terrore, come quella creatura con le corna, seduta sullo scoglio, che spiava la lontana turba che circondava la forca. Ogni incisione mi narrava una storia, spesso misteriosa per la mia intelligenza poco sviluppata e per il mio incompleto sentimento, ma sempre interessantissima; così interessante come i racconti che ci faceva Bessie nelle serate invernali quando era di buon umore e quando, dopo aver portato la tavola da stirare nella stanza dei bambini, ci permetteva di sedersi vicino a lei.

Allora, pieghettando le sciarpe di trina della signora Reed e le cuffie da notte, ci riscaldava la fantasia con narrazioni di amore e di avventure, tolte dai vecchi racconti di fate e dalle antiche ballate, o, come mi accorsi più tardi, da Pamela e da Enrico, conte di Mareland.

Così, avendo Borwick sulle ginocchia, ero felice, felice a modo mio. Temevo soltanto una interruzione, che non tardò. La porta della stanza da pranzo fu vivamente aperta.

— Oh! signora scontrosa, — gridò John Reed. Poi tacque, perché gli parve che la stanza fosse deserta.

— Per bacco, dov'è? Liszy, Giorgy, — continuò egli volgendosi alle sorelle, — dite alla mamma che la cattiva bestia è andata a correre in giardino con questa pioggia!

— Ho fatto bene a tirare la tenda, — pensavo fra me; e mi auguravo sinceramente che non scoprissero il mio nascondiglio.

John non lo avrebbe mai trovato da sè stesso: non aveva lo sguardo pronto; ma Eliza, avendo sporto la testa dall'uscio, esclamò:

— Ella è certamente nel vano della finestra!

Uscii subito, perché mi sgomentavo al pensiero di esser condotta fuori dal mio nascondiglio da John.

— Che cosa volete? — gli domandai con timidezza rispettosa. — Dite: Che cosa volete, signor Reed?

Mi rispose. — Voglio che veniate qui! — e collocandosi nella poltrona, mi fece cenno di accostarmi e di star ritta dinanzi a lui.

John era un ragazzo di quattordici anni, io ne avevo allora dieci solamente. Era alto e forte perla sua età, ma aveva una carnagione scura e malsana. I lineamenti del volto grossolani, le membra pesanti e le estremità molto sviluppate.

Soleva mangiare avidamente, e ciò avevagli prodotta quella tinta biliosa, quello sguardo turbato e quelle guancie flosce.

In quel tempo avrebbe dovuto trovarsi in collegio, ma sua madre avevalo tolto per un mese o due col pretesto della sua delicata salute.

Il signor Miles, direttore del collegio, assicurava che sarebbe stato benissimo se da casa gli avessero mandate meno dolci e meno ghiottonerie, ma il cuore della madre si era ribellato contro questa severità e aveva preferito di accoglier l'idea più gentile che il malessere di John dipendesse dal soverchio studio e dal dolore di esser separato dai suoi. John non voleva molto bene né alla madre né alle sorelle.

Io poi gli ero antipatica; mi maltrattava e mi puniva, non due o tre volte la settimana, non due o tre volte al giorno, ma sempre; ognuno dei miei nervi aveva paura di lui, ogni brano della mia carne e delle mie ossa fremeva allorché egli si accostava a me.

Vi erano momenti in cui divenivo selvaggia per il terrore che mi ispirava, perché non sapevo a chi ricorrere contro le sue minaccie e le sue punizioni. I servi non avrebbero voluto prendere le mie difese per non offendere il loro giovine padrone, e la signora Reed su quell'argomento era cieca e sorda, ella fingeva di non accorgersi quando mi picchiava o m'insultava, benché egli ciò facesse spesso in presenza di lei, ma più spesso quando non c'era.

Essendo assuefatta ad ubbidire a John, mi accostai alla seggiola sua. Egli stette tre minuti a mostrarmi la lingua, allungandola quanto più poteva, sapevo che stava per picchiarmi e spiavo sulla sua brutta faccia il momento in cui la collera avrebbegli fatto allungare la mano.

Credo che s'accorgesse del mio pensiero, perché a un tratto si alzò senza dir parola, e mi colpì duramente.

Barcollai e poi rimettendomi in equilibrio, mi allontanai di un passo o due dalla sua sedia.

— Questo è per l'impudenza con cui avete risposto alla mamma, — mi disse, — e per esservi nascosta dietro la tenda e per lo sguardo che avevate negli occhi poco fa, talpa!

— Assuefetta com'ero agli insulti di John, non mi venne neppur l'idea di rispondergli; ponevo ogni cura invece nel sopportare coraggiosamente il colpo, che avrebbe tenuto dietro all'insulto.

— Che cosa facevate dietro la tenda? — mi domandò.

— Leggevo.

— Fatemi vedere il libro.

— Mi diressi verso la finestra per prenderlo.

— Non c'è bisogno che prendiate i nostri libri; dipendete da noi, dice la mamma; non avete quattrini, vostro padre non vi lasciò nulla; dovreste andare ad accattare invece di star qui con noi, che siamo figli di signori, di mangiare i medesimi cibi che mangiamo e di esser vestita alle spese della mamma.

Ora v'insegnerò a frugar nella mia biblioteca, perché questi libri sono miei, tutto mi appartiene in casa, o mi apparterrà fra pochi anni. Andate vicino alla porta, lontano dallo specchio e dalla finestra.

Ubbidii senza sapere che intenzione avesse; ma quando vidi che alzava il libro e far atto di gettarmelo contro, mi tirai istintivamente da parte, mandando un grido d'allarme. Non fui però abbastanza pronta; il volume volò per aria e mi colpì nella testa; io caddi e battendo nello spigolo della porta mi ferii.

La ferita sanguinava ed io provai un gran dolore: ma il terrore era svanito per dar luogo ad altri sentimenti.

— Perfido e crudele ragazzo! — dissi, — siete simile a un assassino, a un guardiano di schiavi, a un imperatore romano!

Avevo appunto letto la storia di Roma di Goldsmith e mi ero fatta un concetto di Nerone, di Caligola, che non credevo di dover esporre mai a voce alta.

— Come! Come! — esclamò. — Dice a me forse? L'avete sentita, Eliza, Georgiana? Vado a dirlo a mamma, ma prima....

Egli si slanciò contro di me, e mi sentii afferrare per i capelli e per le spalle con disperato furore. Io vedevo realmente in lui un assassino, un tiranno. Sentii scendermi dalla testa e cadere sul collo una o due gocce di sangue e provai un'acuta sofferenza; queste sensazioni per un momento dominarono la paura e mi resero furente.

Non so dire quello che io facessi con le mani, ma John mi chiamava: "Talpa! Talpa!" e continuava a insultarmi. Egli fu subito soccorso.

Eliza e Georgiana erano corse a chiamar la mamma, che era salita al piano superiore. La signora Reed entrò durante quella scena, seguita da Bessie e da Abbot, la cameriera. Ci separarono ed io sentii dire:

— Dio mio, che orrore! Percuotere il signorino John!

— Avete mai visto una rabbiosa come questa?

Allora la signora Reed soggiunse:

— Portatela nella camera rossa e chiudetevela dentro.

Quattro mani mi afferrarono e io fui trascinata su per le scale.

 

 

II.

 

Opposi resistenza per tutto il percorso, così che accrebbi grandemente la cattiva opinione che Bessie e Abbot avevano di me. È un fatto che non ero più io, o meglio ero fuori di me, come direbbero i francesi. Sapevo che quella ribellione momentanea mi avrebbe valso delle strane punizioni, e, pari a ogni schiavo ribelle, ero spinta agli estremi dalla disperazione stessa.

— Reggetele le mani, signorina Abbot; è come un gatto infuriato.

— Vergogna! Vergogna! — esclamò la cameriera. — Che gatto arrabbiato! Che scandalosa condotta, signorina Eyre! Percuotere il signorino, il figlio della vostra benefattrice, il vostro padroncino!

— Chi è il mio padrone? Sono forse una serva?

— No, siete meno che una serva, perché non vi guadagnate il pane. Sedetevi qui e pensate alla vostra perfidia.

Intanto mi avevano condotta nell'appartamento indicato dalla signora Reed e mi avevano gettata su una sedia. Io mi sentii spinta ad alzarmi di botto; quattro mani mi trattennero subito.

— Se non state ferma costì a sedere, vi legheremo, — disse Bessie. — Signorina Abbot, prestatemi le vostre legaccie delle calze, perché presto avrò rotto le mie.

La signorina Abbot si affrettò a sciogliersi le calze. Questo preparativo di legatura e la vergogna che per me ne derivava, calmarono la mia agitazione.

— Non vi sciogliete le calze, non mi muoverò.

E per dare una prova di ciò che asserivo, mi avviticchiai alla sedia.

— Non vi movete, — disse Bessie.

Quando fu sicura che avevo veramente intenzione di obbedirla, mi lasciò andare. Allora lei e Abbot incrociarono le braccia e mi guardarono severamente, come se avessero dubitato dello stato della mia mente.

— Non era mai giunta a tanto, — disse Bessie alla fine, volgendosi verso Abigail Abbot.

— Ma però si vedeva che sarebbe giunta a questo, — rispose Abbot. — Ho spesso palesato alla signora la mia opinione su questa bambina, e la signora ha convenuto che avevo ragione; è una creatura subdola; non ho mai veduto una bimba della sua età che sapesse finger così bene.

Bessie non rispose, ma poco dopo, rivolgendosi a me, disse:

— Non sapete, signorina, che dovete tutto alla signora Reed? Vi tiene presso di sé, ma se vi mandasse via, dovreste andare in un ricovero di mendicità. Non avevo nulla da rispondere a quelle parole, che non sonavano nuove al mio orecchio; i più antichi ricordi della mia esistenza si riferivano a parole simili. Il rimprovero per il mio stato di dipendenza era divenuto per i miei orecchi un sono vago, penoso e opprimente, ma a metà inintelligibile. La signorina Abbot soggiunse:

— Spero che non vi crederete eguale alle signorine e al signor Reed, perché la signora è così buona da farvi educare insieme con loro.

Essi avranno molto danaro e voi non ne avrete punto; dovreste cercare di studiare di esser umile e di rendervi gradita a loro.

— Quello che vi diciamo, è per il vostro bene, — aggiunse Bessie con voce che non era aspra; — dovreste cercare di rendervi utile e di farvi piacevole e allora forse potreste rimaner qui; ma se divenite violenta e brutale, la signora vi manderà via, ne son certa.

— Inoltre, — continuò Abbot, — Iddio la punirà. Potrebbe colpirla con la morte mentre è in peccato, e allora dove andrà? Venite, Bessie, lasciamola. Non vorrei davvero avere un cuore come il suo. Dite le vostre preghiere, signorina Eyre; se non vi pentite, Iddio potrà concedere a qualche spirito malvagio di scendere dalla cappa del camino, e di portarvi via.

Le due donne se ne andarono sbatacchiando la porta e poi la chiusero a chiave. La camera rossa era una camera riservata, dove raramente qualcuno dormiva. Non l'aveva mai veduta abitata altro che quando vi era molta affluenza di ospiti nella villa di Gateshead e occorreva trar partito da ogni stanza; era una delle camere più grandi e più eleganti della casa.

Nel centro era collocato un pesante letto di mogano a colonne, dal quale pendevano drapperie di damasco rosso scuro. Le due grandi finestre, con le persiane chiuse, erano ornate di drappeggiamenti della stessa stoffa. Il tappeto era rosso, la tavola, collocata a piè del letto, era coperta con un panno rosso; i muri erano coperti di carta giallastra a rose; l'armadio, la toilette, le seggiole, erano di vecchio mogano ben lustro. In mezzo a questo cupo arredamento, s'inalzava sul letto e si staccava in bianco, un mucchio di materasse abballinate e di guanciali, nascosti da una coperta di Marsiglia.

A capo al letto vi era un'ampia e comoda poltrona, pure bianca, con uno sgabellino davanti; pareva un trono. Quella camera era fredda, perché raramente vi si accendeva il fuoco; era silenziosa, perché lontana dalla stanza dei bambini e dalla cucina; era solenne perché raramente vi entrava qualcuno. La cameriera vi andava il sabato per spolverare i mobili e gli specchi dalla polvere di tutta la settimana.

La signora Reed pure la visitava a lunghi intervalli per esaminare certi cassetti segreti dell'armadio, dove erano custodite carte di famiglia, la cassetta dei suoi gioielli e la miniatura del suo defunto marito; in queste ultime parole è contenuto il segreto della camera rossa: l'incanto che la rendeva solitaria nonostante la sua bellezza.

II signor Reed era morto da nove anni, e in quella stanza aveva esalato l'ultimo respiro, di là era stata portata via la sua bara, e da quel giorno una specie di culto solenne avevala preservata da frequenti visite.

Il sedile su cui Bessie e l'aspra signorina Abbot mi avevano lasciata, era un'ottomana bassa collocata vicino al caminetto di marmo. Il letto mi stava dinanzi; a diritta il grande e cupo armadio; a sinistra due finestre chiuse con. uno specchio nel mezzo, che rifletteva la tetra maestà della camera e del letto. Non ero sicura se la porta fosse stata chiusa, e appena osai muovermi, andai a vedere.

Ohimè! sì; nessun prigioniero era stato mai meglio rinchiuso. Nel ripassare davanti allo specchio, il. mio sguardo affascinato su quello involontariamente si posò esplorandone la profondità. Ogni cosa riflessa nello specchio pareva più fredda, più trista che nella realtà, e la strana creaturina che mi fissava col viso bianco, le braccia che si staccavano nell'ombra, gli occhi scintillanti e che movevasi timorosamente in quella camera silente, mi parve uno spirito, una di quelle sottili fantasime, metà fate, metà folletti, di cui Bessie parlava nelle novelle narrate la sera accanto al fuoco e che essa ci descriveva uscente dalle valli abbandonate, ove crescono le eriche per apparire dinanzi ai viaggiatori.

Tornai all'ottomana. La superstizione si era insinuata nell'anima mia in quel momento; ma essa non trionfava ancora; il sangue mi correva ancora caldo nelle vene; la rabbia della schiava ribelle mi animava ancora con il suo amaro vigore; dovevo trattenere la rapida corsa del pensiero verso il passato prima di lasciarmi abbattere dallo sgomento del presente.

Tutte le violente tirannie di John Reed, tutta l'altera indifferenza delle sorelle di lui, l'avversione della loro madre, tutte le parzialità dei servi turbinavano nella mia mente come un deposito nero in una sorgente torbida.

Perché dovevo sempre soffrire? Perché ero sempre maltrattata, sempre condannata, sempre punita? Perché non piacevo a nessuno? Perché ogni tentativo di amicarmi un cuore era un tentativo inutile?

Eliza, caparbia ed egoista, era rispettata; Georgiana, che aveva un carattere invidioso, insolente e acre, trovava indulgenza presso tutti. La sua bellezza, le sue guance rosee e i suoi ricci d'oro, pareva che riempissero di gioia quanti la vedevano e facessero dimenticarne i difetti. John non era né sgridato né punito, benché torcesse il collo ai piccioni, uccidesse i pavoncelli, aizzasse i cani contro le pecore, devastasse l'uva nelle serre, rompesse i rami delle piante esotiche e chiamasse la mamma "zitellona".

Spesso egli la beffeggiava perché aveva la pelle nera come la sua, la contrariava e le macchiava e le strappava i vestiti di seta, eppure lo chiamava sempre "amor mio". Io invece non osavo commettere nessuna mancanza, mi sforzavo di compiere i miei doveri, e dalla mattina alla sera sentivo dirmi che ero svogliata e pigra, perfida e intrattabile. La testa mi doleva e continuava a sanguinarmi per il colpo ricevuto; nessuno aveva rimproverato John per avermi percossa, e tutti mi avevano biasimata per essermi rivoltata contro di lui onde evitare nuove violenze.

— Ingiustizia! Ingiustizia! — gridava la mia ragione eccitata dal doloroso stimolo di una precoce energia.

Tutto ciò che vi era in me di risoluzione, mi faceva pensare ai mezzi più disperati per togliermi a quella oppressione; pensavo a fuggire, o, se non mi riusciva, a ricusare cibi e bevande per morir di fame.

Quale costernazione erasi insinuata nell'anima mia in quel triste pomeriggio! Il sangue tumultuava e il cuore era in piena ribellione. E in quale oscurità, in mezzo a quale densa ignoranza combattevasi quella battaglia mentale! Non sapevo rispondere alla incessante domanda del cuore: "Perché devo soffrir tanto?".

Ora, dopo trascorsi molti anni, tutte quelle ragioni mi appariscono chiaramente. Ero causa di discordia alla villa di Gateshead; là non somigliavo a nessuno; non vi era nulla in me che armonizzasse con la signora Reed, con i suoi figli o con i sottoposti, che ella preferiva. Se però non mi volevano bene, è equo dire che neppur io ne voleva a loro.

Non erano obbligati a dimostrare affezione a un essere che non poteva simpatizzare con alcuno di essi, con un essere eterogeneo, opposto a loro per temperamento, per capacità e per inclinazioni, un essere inutile, incapace di servire i loro interessi o di associarsi ai loro piaceri, un essere nocivo che sviluppava in sé i germi di indignazione per i loro trattamenti di disprezzo per i loro giudizii.

Se fossi stata una bimba allegra, senza cure, esigente e sventata, la signora Reed avrebbe sopportata con pazienza la mia presenza, i suoi figli mi avrebbero trattata con quella cordialità che si stabilisce fra coetanii, e i servi sarebbero stati meno propensi a far di me il loro capro espiatorio.

La luce del giorno incominciava a disertare la stanza rossa; erano le quattro passate; le nubi che coprivano il cielo dovevano ben presto condurre la tanto temuta oscurità.

Sentivo la pioggia battere contro i vetri delle scale, e il vento mugolare; a poco a poco mi sentii gelare e perdetti ogni coraggio. La consuetudine che avevo presa di essere umile, di dubitare di me stessa, di essere repressa smorzò la mia collera morente. Tutti erano cattivi e forse ero cattiva anch'io: non avevo forse concepita l'idea di lasciarmi morir di fame? Quello era certo un crimine; ero forse atta a morire? Oppure la volta sotto la cappella di Gateshead era un soggiorno attraente? Mi era stato detto che sotto quella vòlta riposava il signor Reed; questo pensiero mi ricondusse e m'ispirò riflessioni spaventose.

Non potevo rammentarmi di lui, ma sapevo che era mio zio, il fratello di mia madre, che mi aveva presa in casa sua quando ero rimasta orfana e che nei suoi ultimi momenti aveva voluto dalla moglie la promessa che avrebbe continuato a tenermi in casa e a trattarmi come se fossi figlia sua.

La signora Reed credeva senza dubbio di aver mantenuto la parola, e ora posso dire che l'aveva infatti mantenuta per quanto glielo permetteva il suo naturale; ma come poteva ella voler bene a un'intrusa che, dopo la morte del marito, non aveva con lei più nessun legame di parentela?

Era pentita di essersi impegnata con una promessa solenne a far da madre a una bambina cui non poteva voler bene e di vedere un'estranea mescolata al gruppo della sua famiglia.

Un'idea singolare s'impossessò di me. Non dubitavo, non avevo mai dubitato, che se il signor Reed fosse vissuto, non mi avrebbe trattata con bontà, e ora mentre guardavo il letto bianco, le pareti scure e che il mio occhio era attratto di tanto in tanto verso lo specchio, che non mandava altro che cupi riflessi, mi tornava alla mente ciò che avevo udito dire sui morti, turbati nel riposo della tomba dalla violazione delle loro ultime volontà, che ritornano sulla terra per punire lo spergiuro e vendicare l'oppresso.

Pensavo che lo spirito del signor Reed, oppresso dalle sofferenze imposte alla figlia della sorella, poteva lasciare la sua dimora, fosse questa sotto la vòlta della cappella o nell'ignoto mondo dei trapassati, e apparirmi in quella camera. Mi asciugai le lagrime, repressi i singhiozzi, temendo che la manifestazione troppo violenta del dolore non destasse qualche voce soprannaturale e consolatrice, e non facesse uscire dall'oscurità qualche figura, circondata da un'aureola, che si chinasse su di me esprimendomi la sua strana compassione; perché sentivo che questa idea, confortante in teoria, doveva essere terribile nella realtà e mi studiavo di scacciare quel pensiero e di esser forte.

Rialzando i capelli che mi cadevano sugli occhi, gettai uno sguardo risoluto intorno a me, nella camera buia; in quel momento un lume scintillò sulla parete. Non è forse, domandai a me stessa, un raggio di luna che traversa le persiane? No, la luna è immobile e quella luce vacillava, e mentre io la fissava scorse sul soffitto e si fermò sulla mia testa.

Suppongo che fosse il riflesso di una lanterna portata da qualcuno che traversava il prato, ma la mia fantasia, predisposta com'era alla paura, i miei nervi, scossi com'erano dall'agitazione, mi fecero rilevare che quel timido raggio di luce fosse l'araldo di una visione del mondo di là. Il cuore mi batteva con violenza, la mia testa ardeva; un suono mi colpì gli orecchi; pareva un agitarsi di ale; ero oppressa, mi sentivo soffocare.

Allora corsi alla porta e feci sforzi inauditi per aprirla. Sentii un rumore di passi, la chiave girò nella toppa; Bessie e la signorina Abbot entrarono.

— Signorina Eyre, vi sentite male? — domandò Bessie.

— Che rumore indiavolato! Son tutta spaventata, — aggiunse Abbot.

— Conducetemi via, lasciatemi andare nella camera dei bambini, — gridai.

— Perché? Siete malata? Avete veduto qualcosa? — chiese di nuovo Bessie.

— Ho veduto un lume e ho creduto che giungesse uno spirito.

Mi ero impossessata della mano di Bessie ed ella non poteva liberarsi della mia stretta.

— S'è messa a gridare senza ragione, — disse Abbot irritata. — Sarebbe scusabile se si fosse sentita male, ma lo ha fatto soltanto per farci accorrere. Conosco le sue perfide malizie.

— Che cosa c'è? — domandò una voce imperiosa, e la signora Reed comparve nel corridoio con la cuffia per aria e il vestito svolazzante per la corsa.

— Abbot, Bessie, credo di aver ordinato che Jane Eyre fosse lasciata nella camera rossa, perché non era tornata in sé.

— Signora, la signorina Jane gridava tanto forte! — si arrischiò ad osservare Bessie.

— Lasciatela stare, — rispose ella. — Bambina, lasciate andare la mano di Bessie; con questi espedienti non otterrete nulla. Odio l'ipocrisia, specialmente nei bambini, ed è mio dovere il mostrarvi che con l'inganno non otterrete mai nulla; starete qui un'ora di più e non sarete liberata altro che alla condizione di mostrarvi assolutamente tranquilla e sottomessa.

— Oh! zia, abbiate pietà di me! Perdonatemi, punitemi in un'altra maniera, ma qui mi sento morire!

— Silenzio! Questa violenza mi fa orrore, — e, senza dubbio, ella provava ciò che diceva. Ai suoi occhi ero una commediante precoce e vedeva sinceramente in me un complesso di passioni violente, d'ipocrisia e di doppiezza.

Bessie e Abbot erano uscite; la signora Reed, esasperata dalle mie paure e dai miei singhiozzi, mi spinse brutalmente nella camera senza profferir parola. La sentii allontanarsi.

Suppongo di essere stata subito colpita da un deliquio, perché non ho coscienza di ciò che avvenne dopo.

 

 

III.

 

Appena tornai in me pervenni ad uscire da un incubo spaventoso e di veder dinanzi agli occhi una luce rossastra a strisce nere e fitte. Sentii alcune voci sommesse coperte dal rumore dell'acqua e del vento.

L'agitazione, l'incertezza e un senso di terrore avevano gettata una grande confusione nella mia mente.

Dopo poco mi accorsi che qualcuno si avvicinava a me, mi sollevava collocandomi in una posizione più comoda; nessuno mi aveva mai trattato fino a quel momento con tanta sollecitudine affettuosa. Sentii appoggiarmi la testa su un guanciale o su un braccio, e provai un senso di benessere. In cinque minuti lo smarrimento era scomparso; mi accorsi di esser coricata nel mio letto e che la luce rossastra era quella del fuoco.

Era notte; una candela ardeva sulla tavola; Bessie stava ritta a piè del letto con una catinella in mano, e un signore, seduto al mio capezzale, si chinava su di me. Provai un indicibile sollievo, un senso di protezione e di sicurezza, quando mi accorsi che un estraneo era in camera mia, un individuo che non apparteneva a Gateshead nè alla famiglia della signora Reed.

Volgendo lo sguardo da Bessie, benché la sua presenza mi fosse molto meno incresciosa che quella di Abbot, esaminai il volto dell'estraneo. Lo conoscevo, era il signor Lloyd, un farmacista chiamato qualche volta dalla signora Reed quando i servi erano malati, perché per sé e per i figli ricorreva al medico.

— Chi sono? — domandò egli. Pronunziai il suo nome, stendendogli la mano.

Egli la prese e disse sorridendo:

— Tutto andrà bene fra poco.

Poi mi distese con cura, raccomandando a Bessie che nessuno mi disturbasse durante la notte; e dopo aver fatto altre prescrizioni e assicurato che sarebbe tornato il giorno dopo, uscì, con mio gran dispiacere.

Mi sentivo così ben protetta e così curata mentre egli stava seduto al mio capezzale!

Così, quando la porta si chiuse dietro a lui, mi parve che tutto si oscurasse; il mio cuore fu depresso di nuovo da una inesprimibile tristezza.

— Avete bisogno di dormire, signorina? — domandò Bessie con una certa dolcezza nella voce.

Non osavo rispondere per timore di sentir quella voce rifarsi aspra.

— Proverò. — dissi.

— Volete bere o desiderate mangiare qualche cosa?

— No, Bessie, vi ringrazio.

— Allora vado a letto, perché è mezzanotte passata; ma potete chiamarmi, se avete bisogno di qualche cosa.

Che gentilezza sorprendente! Essa mi dette animo a rivolgerle una domanda:

— Bessie, che cosa mi è accaduto? Sono forse ammalata?

— Credo che a forza di piangere siate svenuta nella camera rossa.

Bessie andò nella stanza attigua, destinata alla servitù, e udii che diceva:

— Sara, venite a dormir con me nella camera dei bambini; non vorrei stare sola con quella povera piccina, che potrebbe morire. L'accesso che ha avuto è così strano!

Davvero che la signora è stata troppo dura con lei!

Sara tornò insieme con Bessie e tutt'e due andarono a letto.

Le sentii parlare a voce bassa per una mezz'ora prima di addormentarsi, e afferrai qualche frase della loro conversazione di cui indovinai l'argomento.

Una forma tutta strana le è passata davanti ed è sparita. — Un grosso cane nero la inseguiva. — Tre violenti colpi alla porta della camera. — Un lume nel cimitero, proprio sopra la tomba....

Questo e altro dicevano le due donne. Alla fine si addormentarono e la candela continuò a bruciare.

Passai la notte vegliando angosciosamente; i miei occhi, i miei orecchi, il mio spirito erano tesi per la paura, una di quelle paure di cui i bimbi soltanto sono capaci.

Nessuna malattia lunga e seria tenne dietro a quell'incidente della camera rossa, esso dette soltanto una scossa tale ai miei nervi che la risento tuttora.

— Sì, signora Reed, grazie a voi, ho sofferto le dolorose angosce della sofferenza mentale. Ma devo perdonarvi, perché ignara di quello che facevate; perché, credendo di sradicare le mie cattive tendenze, mi spezzavate il cuore.

La mattina dopo, verso mezzogiorno, ero alzata e vestita, e, dopo essermi rinvoltata in uno scialle, mi ero seduta accanto al fuoco.

Mi sentivo debole e affranta, ma la mia maggior sofferenza proveniva da un grande abbattimento di spirito, che mi strappava lagrime mute; appena ne aveva rasciugata una, un'altra mi scendeva sulle guancie; eppure avrei dovuto esser felice, perché nessuno dei Reed era in casa; erano tutti usciti in carrozza con la loro mamma; anche Abbot cuciva in un'altra stanza e Bessie, che andava e veniva per riordinare i cassetti, mi rivolgeva di tanto in tanto una parola straordinariamente dolce.

Avrei dovuto credermi in paradiso, assuefatta come ero a continui rimproveri e a sforzi incompresi; ma i miei nervi erano così scossi, che la calma non poteva più calmarli, e il piacere non poteva più eccitarli piacevolmente.

Bessie scese in cucina e mi portò una piccola torta, su un bel piatto cinese coperto di uccelli del paradiso, posati su convolvoli e bocci di rose. Quel piatto aveva sempre suscitato in me una viva ammirazione; avevo spesso chiesto il permesso di prenderlo in mano per guardarlo con agio, ma fino allora ero stata riputata indegna di quel favore, e ora quella preziosa porcellana era posata sulle mie ginocchia e mi invitava amichevolmente a mangiare il dolce che conteneva.

Vano favore! Esso giungeva troppo tardi, come quasi tutti i favori lungamente desiderati e spesso negati. Non potei mangiare la torta, e le piume degli uccelli e le tinte dei fiori mi parvero sbiaditi. Misi da parte il piatto e la torta.

Bessie mi domandò allora se volevo un libro. Quella parola «libro» mi produsse una puntura momentanea. Peraltro le chiesi di portarmi «II viaggio di Gulliver», che era nella biblioteca. Avevo letto e riletto quel libro sempre con nuovo piacere.

Prendevo quei racconti come fatti veri e vi trovavo più soddisfazione che nei racconti delle fate, perché dopo aver cercato invano le silfidi fra le campanule, i muschi, le foglie e le edere che coprivano i vecchi muri, mi ero alfine rassegnata pensando che esse avessero abbandonato l'Inghilterra per rifugiarsi in qualche paese, ove i boschi fossero più incolti, più folti, dove gli uomini avessero maggior bisogno di loro, mentre che Lilliput e Brobdignag erano collocati per me in qualche angolo della terra, e non dubitavo che un giorno, potendo fare un lungo viaggio, avrei veduto i piccoli alberi, i piccoli campi, le piccole case di quel popolo minuscolo; le vacche, le pecore, gli uccelli di uno dei regni, o le alte foreste, i cani enormi, i mostruosi gatti, gli uomini immensi dell'altro impero.

Pure quando quel caro libro fu posto fra le mie mani, quando mi misi a sfogliarne le pagine, cercando nelle vignette l'attrattiva che vi avevo sempre trovata, tutto mi parve cupo e nudo. I giganti non erano più altro che spettri scarni, i pigmei, altro che genietti perfidi; Gulliver, un viaggiatore disperato errante in regioni pericolose e spaventose.

Chiusi il libro e lo posai sulla tavola, accanto alla torta, che non avevo assaggiata. Bessie aveva terminato di mettere in ordine la camera, e, dopo essermi lavate le mani, aprì un cassetto, e ne cavò alcuni pezzi di seta scintillante per fare un cappello nuovo alla bambola di Georgiana.

Ella incominciò a cantare:

"C'era una volta, tanto tanto tempo fa, quando vivevamo come zingari...."

Avevo spesso udito quel canto e mi rendeva spesso allegra, perché Bessie aveva una voce dolce, almeno mi pareva tale; ma in quel momento, nonostante che la sua voce fosse sempre la stessa, pure i suoi accenti mi parevano impregnati d'immensa tristezza.

Qualche volta, occupata dal lavoro, ripeteva il ritornello a voce bassissima, e queste parole: "C'era una volta, tanto tanto tempo fa" mi facevano l'impressione di un inno funebre.

Ella intonò un'altra ballata, veramente malinconica, che diceva: "I miei piedi sono feriti, le mie membra sono stanche. La via lunga, la montagna è selvaggia; ben presto il triste crepuscolo che la luna non rischiarerà più con i suoi raggi, spanderà le tenebre sul cammino del povero orfanello.

"Perché mi hanno mandato così solo e così lontano, là ove si stendono le paludi, là ove sono ammonticchiate le cupe roccie? Il cuore dell'uomo è duro e i buoni angioli solamente vegliano i passi del povero orfanello.

"Però la brezza della sera soffia dolcemente; il cielo è senza nubi e le stelle scintillanti spandono i loro puri raggi. Iddio, nella sua bontà, concede protezione, sostegno e speranza al povero orfanello.

"Anche se cadessi passando sul ponte in rovina, anche se dovessi errare, attratto da fuochi fatui, nelle paludi, mio Padre, che è in Cielo, mormorerebbe nel mio orecchio promesse e benedizioni e stringerebbe sul suo cuore l'orfanello.

"Questo pensiero deve infondermi coraggio, benché non abbia né ricovero né genitori. Il cielo è la mia casa, e lassù non mi mancherà il riposo. Iddio è l'amico del povero orfanello."

— Venga, signorina Jane, non pianga! — esclamò Bessie quando ebbe terminato.

Tanto valeva dire al fuoco di non bruciare; ma come avrebbe fatto ella a indovinare le sofferenze alle quali ero in preda?

Il signor Lloyd tornò a vedermi.

— Come, già alzata? — disse entrando. — Ebbene, Bessie, come sta la piccina?

Bessie rispose che stavo bene.

— Allora dovrebbe essere più allegra.... Venite qui, signorina Jane.... vi chiamate Jane, non è vero?

— Sì, signore, Jane Eyre.

— Ebbene, avete pianto, signorina Jane Eyre; mi potrebbe dire per chi? Avete qualche dispiacere?

— No, signore.

— Piange, certo, perché non ha potuto andare in carrozza con la signora, — disse Bessie.

— Oh! no; è troppo grande per piangere per una sciocchezza simile.

Io la pensavo pure così, e sentendo offeso il mio amor proprio, risposi prontamente:

— Non ho pianto mai per una inezia di quel genere. Detesto di uscire in carrozza; ho pianto perché sono infelice.

— Vergogna, signorina, — disse Bessie.

Il buon farmacista rimase impacciato. Ero ritta davanti a lui, ed egli fissò su di me i suoi occhi scrutatori. Erano grigi, piccoli e mancavano di splendore; ora mi pare che li giudicherei penetranti: era brutto, ma aveva l'aspetto buono.

Dopo avermi considerata con agio, mi disse:

— Che cosa vi fece ammalare ieri?

— Cadde, — disse Bessie, prendendo di nuovo la parola.

— Cadde! È forse una bimba piccina? Non sa camminare alla sua età? Deve avere otto o nove anni.

— Mi hanno buttata in terra, — risposi vivamente, sentendo di nuovo una ribellione di amor proprio, — ma non per quello mi sono ammalata, — aggiunsi mentre il signor Lloyd si consolava con una presa di tabacco.

Mentre egli riponeva in tasca la tabacchiera, si sentì la campana che annunciava il pranzo della servitù.

— Vi chiamano, Bessie, — disse il farmacista volgendosi verso la bambinaia. — Potete scendere; io leggerò qualche cosa alla signorina Jane, finché non tornerete.

Bessie avrebbe preferito di rimanere, ma fu costretta a scendere, perché sapeva che l'esattezza era un dovere che occorreva compiere a Gateshead.

— Se non è la caduta che vi ha fatto ammalare, che cosa è stato dunque? — continuò il signor Lloyd quando Bessie se ne fu andata.

— Mi hanno rinchiusa sola nella camera rossa che è visitata la notte da uno spirito.

Vidi il signor Lloyd sorridere e aggrottare lo sopracciglia.

— Uno spirito! Siete davvero una piccinuccia se avete paura degli spiriti!

— Sì, ho paura dell'ombra del signor Reed, che morì in quella camera, e di là fu portato a sotterrare. Né Bessie né altri entrano la sera in quella stanza, se ne possono fare a meno, ed è stata una crudeltà di rinchiudermici sola senza lume, tanta crudeltà che mi pare di non potermene scordar mai più.

— Sciocchezze! E fu quello che vi rese infelice? Avete paura anche di giorno?

— No, ma la notte tornerà fra poco; del resto, sono infelice per altre ragioni.

— Quali? Ditene qualcuna.

Come avrei desiderato di rispondere sinceramente a quella domanda! ma come era difficile il farlo!

I bimbi sentono, ma non analizzano i loro sentimenti, e se col pensiero riescono a far parzialmente quell'analisi, non sanno tradurla in parole. Però, siccome temevo di perdere la prima e farne l'unica occasione di mitigare il mio dolore sfogandolo con altri, feci, dopo un istante di turbamento, questa breve, ma sincera risposta:

— Prima di tutto non ho né padre nè madre, nè fratelli né sorelle.

— Avete però una buona zia e dei buoni cugini....

Feci una pausa e poi risposi francamente:

— John Reed mi buttò in terra e la zia mi rinchiuse nella sala rossa.

II signor Lloyd per la seconda volta ricorse alla sua tabacchiera.

— La villa di Gateshead non vi par bella? non siete riconoscente di vivere in una casa così bella?

— Non è la mia casa, signore, e Abbot dice che ho meno diritto che una serva di abitarvi.

— Non siete, spero, tanto stupida da desiderare di andarvene.

— Se potessi andare altrove, sarei ben contenta di lasciarla, ma non posso farlo finché sono piccina.

— Forse potreste.... chi sa? Avete altri parenti oltre la signora Reed?

— Non credo, signore.

— Nessuno dal lato paterno?

— Non so; lo domandai una volta alla signora Reed; ella mi disse che potevo avere qualche parente povero che portasse il cognome di Eyre, ma che non sapeva nulla di loro.

— Se ne aveste, vorreste andare con essi?

Riflettei. La povertà sgomenta gli uomini e più ancora i bambini. Essi non hanno idea di una povertà industre, operosa e rispettabile; la parola evoca nella loro mente l'immagine di vesti stracciate, di scarso cibo, di focolare spento, di cattive maniere e di vizii degradanti; per me povertà era sinonima di degradazione.

— No, — risposi, — non vorrei appartenere a povera gente.

— Nemmeno se fosse buona per voi?

Scrollai la testa; non potevo capire come avrebbe potuto esser buona quella gente se era povera; e poi imparare a parlar come i poveri, acquistare le loro maniere, non avere educazione, crescere come quelle misere donne, che vedevo allattare i bimbi e lavare il bucato sulla porta delle casupole del villaggio; no, non ero abbastanza eroica per acquistare la libertà col suo corteo di miserie.

— Ma i vostri parenti sono dunque tanto poveri? Sono forse operai?

— Non saprei dirlo; mia zia assicura che, se ne ho, debbono appartenere alla classe dei mendicanti, e io non vorrei chiedere l'elemosina.

— Vorreste andare in pensione?

Riflettei di nuovo. Sapevo appena che cos'era una pensione. Bessie me ne aveva parlato come di una casa dove le ragazze erano sedute su panche di legno, davanti a una tavola grande, e dove si esigeva da loro dolcezza e puntualità.

John Reed odiava la sua pensione e si burlava dei maestri; ma i gusti di John non potevano esser di norma ai miei.

Se i particolari che mi aveva dati Bessie, particolari che aveva appresi dalle ragazze di una casa dove aveva vissuto prima, mi sgomentavano un poco, ero però attratta dalle cognizioni che quelle stesse ragazze avevano acquistate.

Bessie mi vantava i bei paesaggi, i fiori graziosi dipinti da loro; poi sapevan cantare romanze, recitare e tradurre libri francesi.

Ascoltando Bessie, il mio spirito era stato colpito, e sentivo destarsi in me l'emulazione. Del resto la pensione condurrebbe seco un cambiamento di vita, riempirebbe una lunga giornata, mi allontanerebbe dagli abitanti della villa, sarebbe infine il principio di una nuova esistenza.

— Come sarei contenta di andare in pensione! — risposi senza più esitare.

— Ebbene, chi sa che cosa può accadere! — mi disse il signor Lloyd alzandosi.

— Per questa bimba ci vorrebbe un cambiamento d'aria e di luogo — aggiunse come se parlasse a sè stesso. I suoi nervi non sono in buono stato.

In quel momento entrò Bessie e si senti il rumore della carrozza della signora Reed nel cortile.

— È la vostra padrona, Bessie? — domandò il signor Lloyd. — Vorrei parlarle avanti di andarmene.

Bessie lo invitò ad entrare nella stanza da pranzo, e camminò davanti a lui per insegnargli la via.

Nel colloquio fra il farmacista e la signora Reed, suppongo che egli la spingesse a mettermi in pensione.

Questo consiglio fu certo accettato subito, perché la sera stessa Abbot e Bessie vennero nella camera dei bambini, e credendomi addormentata, si misero a parlare su quell'argomento.

— La signora, — diceva Abbot, — è molto contenta di sbarazzarsi di quella noiosa bambina, che pare sorvegli sempre tutti e mediti qualche complotto. Suppongo che Abbot mi credesse un'altra Guy Jaukes bambina.

Allora seppi per la prima volta, dai discorsi che Abbot fece a Bessie, che mio padre era un povero pastore, che mia madre lo aveva sposato contro il volere dei suoi, che consideravano quel matrimonio inferiore alla sua condizione. Il nonno Reed, irritato da quella disubbidienza, aveva diseredato la mamma.

Dopo un anno di matrimonio mio padre fu attaccato dal tifo. Aveva preso il contagio assistendo i poveri di una grande città manifatturiera, ove quell'epidemia faceva strage. Mia madre si ammalò assistendolo, e tutti e due morirono alla distanza di un mese.

Bessie, dopo avere ascoltato questo, sospirò dicendo:

— Povera signorina Jane; merita davvero compassione!

— Sì, — rispose Abbot, — se fosse una bella creatura si potrebbe aver pietà del suo abbandono, ma chi può guardare un rospetto simile?

— È vero, — rispose Bessie esitando, — è certo che una bellezza come la signorina Georgiana vi commoverebbe più, se fosse nella stessa posizione.

— Sì, — esclamò l'ardente Abbot, — tengo per la signorina Georgiana! Cara piccina, con i suoi lunghi riccioli, con quegli occhi azzurri e quella dolce carnagione; pare dipinta; Bessie, avrei voglia di un po' di coniglio per cena.

— Anch'io, con le cipolle arrostite. Venite, andiamo giù. — E uscirono.

 

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