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Книга «Посторонний» (Lo straniero) на итальянском языке – читать онлайн

Книга «Посторонний» (Lo straniero) на итальянском языке читать онлайн, автор – Альбер Камю. Это был первый роман французского писателя Альбера Камю, и самый популярный не только у французских читателей, но и у читателей других стран (книга была переведена на разные языки мира, в том числе и на итальянский).

На этой странице выложены первые 3 главы романа «Посторонний» (Lo straniero) на итальянском языке, в конце страницы будет ссылка на продолжение книги.

Другие произведения мировой литературы можно читать онлайн в разделе «Книги на итальянском».

Для тех, кто изучает итальянский язык по фильмам и видеоурокам, есть раздел, который так и называется - «Фильмы и видеоуроки на итальянском языке».

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Теперь переходим к чтению книги «Посторонний» (Lo straniero) на итальянском языке.

 

Lo straniero

 

PARTE PRIMA

 

1.

 

Oggi la mamma è morta. O forse ieri, non so. Ho ricevuto un telegramma dall’ospizio: "Madre deceduta. Funerali domani. Distinti saluti.” Questo non dice nulla: è stato forse ieri.

L’ospizio dei vecchi è a Marengo, a ottanta chilometri da Algeri. Prenderò l’autobus delle due e arriverò ancora nel pomeriggio. Così potrò vegliarla e essere di ritorno domani sera. Ho chiesto due giorni di libertà al principale e con una scusa simile non poteva dirmi di no. Ma non aveva l’aria contenta. Gli ho persino detto: “Non è colpa mia.” Lui non mi ha risposto. Allora ho pensato che non avrei dovuto dirglielo. Insomma, non avevo da scusarmi di nulla. Stava a lui, piuttosto, di farmi le condoglianze. Ma certo lo farà dopodomani, quando mi vedrà in lutto. Per adesso è un po’ come se la mamma non fosse morta; dopo il funerale, invece, sarà una faccenda esaurita e tutto avrà preso un andamento più ufficiale.

Ho preso l’autobus delle due: faceva molto caldo. Prima ho mangiato in trattoria, da Celeste, come al solito. Avevano tutti molta compassione per me e Celeste mi ha detto: “Di mamme ce n’è una sola.” Quando ho fatto per andarmene, mi hanno accompagnato alla porta. Ero un po’ intontito perché ero anche andato su da Emanuele a farmi prestare una cravatta nera e una benda per il braccio. Lui ha perso suo zio qualche mese fa.

Ho dovuto correre per non perdere l’autobus. La gran fretta, la corsa, certo è per questo, oltre alle scosse, all’odor di benzina, al riverbero della strada e del cielo, che presto mi sono assopito. Ho dormito quasi tutto il percorso. E quando mi sono svegliato ero addossato a un militare che mi ha sorriso e mi ha chiesto se venivo di lontano. Ho detto “Sì” per non dover più parlare.

L’ospizio è a due chilometri dal villaggio: ho fatto la strada a piedi. Volevo vedere subito la mamma, ma il portinaio mi ha detto che dovevo prima andare dal direttore. Siccome era occupato, ho atteso per un po’ e intanto il portinaio non smetteva di parlare. Poi ho visto il direttore: mi ha ricevuto nel suo ufficio.

È un vecchietto col nastrino della Legion d’onore. Mi ha fissato con i suoi occhi chiari, poi mi ha stretto la mano e l’ha tenuta così a lungo che non sapevo come fare per ritirarla. Ha consultato un incartamento e mi ha detto: “La signora Meursault è entrata qui tre anni fa. Voi eravate il suo unico sostegno.” Ho creduto che mi rimproverasse qualcosa e ho cominciato a spiegargli. Ma lui mi ha interrotto: “Non avete da giustificarvi, caro figliolo. Ho letto la pratica di vostra madre. Voi non eravate in grado di provvedere ai suoi bisogni. Aveva bisogno di un’infermiera. Il vostro stipendio è modesto. E, in fondo, lei era più felice qui.” Ho detto: “Sì, signor direttore.” Lui ha soggiunto: “Capirete, aveva degli amici, persone della sua età. Con loro, poteva avere in comune interessi che sono di un altro tempo. Voi siete giovane e con voi doveva annoiarsi.”

Aveva ragione. Quando era a casa la mamma passava il suo tempo a seguirmi con lo sguardo in silenzio. I primi giorni, all’ospizio, piangeva spesso. Ma era per via dell’abitudine. Dopo qualche mese, avrebbe pianto se l’avessero portata via di lì. Sempre per l’abitudine. È un po’ per questo che l’ultimo anno non ci sono andato quasi più. E anche perché così perdevo tutta la domenica a parte la fatica di prendere l’autobus, comprare i biglietti, e fare due ore di viaggio.

Il direttore mi ha parlato ancora. Ma io non lo ascoltavo quasi più. Poi mi ha detto: “Immagino che vorrete vedere vostra madre.” Mi sono alzato senza dir nulla e lui si è avviato per primo verso la porta. Scendendo le scale, mi ha spiegato: “L’abbiamo trasportata nel nostro piccolo obitorio. È per non impressionare gli altri. Ogni volta che un pensionante muore, gli altri sono nervosi per due o tre giorni, e questo rende difficile il servizio.” Abbiamo attraversato un cortile dove c’erano molti vecchi che chiacchieravano a piccoli gruppi. Al nostro passaggio, smettevano di parlare. E dietro a noi le conversazioni riprendevano. Come un cicaleccio sordo di pappagalli. Davanti alla porta di un piccolo edificio, il direttore mi ha salutato: “Vi lascio, signor Meursault. Sono a vostra disposizione nel mio ufficio. I funerali sono fissati per domattina alle dieci: abbiamo pensato che così potrete vegliare la scomparsa. Un’ultima cosa. Pare che vostra madre abbia sovente espresso ai suoi compagni il desiderio di essere sepolta religiosamente. Mi sono occupato io di tutto il necessario. Ma volevo avvertirvi.” L’ho ringraziato. La mamma, senza essere atea, non aveva mai pensato alla religione in vita sua.

Sono entrato. Era una stanza molto chiara, imbiancata a calce e coperta da una vetrata. Il mobilio era composto di seggiole e cavalletti a forma di X. Due di questi, al centro, reggevano una bara chiusa col suo coperchio. Sulle assi dipinte color noce spiccavano alcune viti lucide conficcate soltanto un poco. Accanto alla bara c’era un’infermiera araba in camice bianco, con in testa un fazzoletto a colori sgargianti.

In quel momento, alle mie spalle, è entrato il portinaio. Doveva aver fatto una corsa. Mi ha detto balbettando un po’: “L’hanno coperta, ma devo svitare la cassa perché voi possiate vederla.” Si stava avvicinando alla cassa, ma l’ho fermato. Mi ha detto: “Non volete?” Ho risposto: “No.” Si è interrotto e io ero imbarazzato perché sentivo che non avrei dovuto dirlo. Dopo un momento mi ha guardato e mi ha chiesto: “Perché”, ma senza accento di rimprovero, come se volesse informarsi. Gli ho detto: “Non so.” Allora, attorcigliandosi i baffi bianchi, ha dichiarato senza guardarmi: “Capisco.” Aveva due begli occhi azzurri e la faccia un po’ rossa. Mi ha dato una sedia e anche lui si è messo a sedere, un po’ dietro a me. L’infermiera si è alzata e si è diretta verso l’uscita. In quel momento il portinaio mi ha detto: “È un cancro, quello che ha” Siccome non capivo, ho guardato l’infermiera e ho visto che aveva sotto gli occhi una benda che le girava tutt’intorno alla testa. All’altezza del naso, la fasciatura era piatta. Non si vedeva nel suo viso che la bianchezza della benda di garza. Quando lei è uscita, il portinaio ha parlato: “Vi lascerò solo, adesso.” Non so che gesto ho fatto, ma lui è rimasto lì, in piedi dietro di me. Quella presenza alle mie spalle mi metteva a disagio. La stanza era piena di una bella luce di pomeriggio inoltrato. Due calabroni ronzavano contro la vetrata e io mi sentivo vincere dal sonno. Ho detto al portinaio, senza voltarmi: “È molto tempo che siete qui?” Mi ha risposto immediatamente: “Cinque anni” come se avesse atteso da sempre la mia domanda.

Poi ha chiacchierato molto. Sarebbe certo rimasto stupito se un giorno gli avessero detto che sarebbe andato a finire portinaio all’ospizio di Marengo. Aveva sessantaquattro anni ed era di Parigi. A questo punto l’ho interrotto: “Ah, non siete di qui?” Poi mi è venuto in mente che, prima di accompagnarmi dal direttore, mi aveva parlato della mamma. Mi aveva detto che bisognava seppellirla molto presto perché in pianura faceva caldo, soprattutto in quel paese. Era stato allora che mi aveva detto di aver vissuto a Parigi, e che faceva fatica a dimenticarselo. A Parigi si resta col morto tre giorni, persino quattro, certe volte. Qui non c’è tempo: non ci si è ancora abituati all’idea, che già bisogna correr dietro al carro funebre. A questo punto sua moglie gli aveva detto: “Sta zitto, ti pare che siano cose da raccontare al signore?” Il vecchio era diventato rosso e si era scusato. Io ero intervenuto per dire: “Ma no, ma no.” Quello che raccontava, io lo trovavo giusto e interessante.

Nel piccolo obitorio mi ha spiegato che, era entrato all’ospizio come indigente. Siccome si sentiva capace di lavorare, si era offerto per quel posto di portinaio. Gli ho fatto notare che in fondo era anche lui un pensionante. Lui mi ha risposto di no. Mi aveva già colpito il modo con cui diceva: “loro”, “gli altri”, e, più di rado, “i vecchi”, parlando dei pensionanti di cui alcuni non avevano certo più anni di lui. Ma naturalmente non era la stessa cosa. Lui era portinaio e, fino a un certo punto, godeva dei diritti su di loro.

In quel momento è entrata l’infermiera. La sera era calata molto presto. Molto presto la notte si era fatta spessa al di sopra della vetrata. Il portinaio ha girato l’interruttore e sono rimasto accecato dalla luce violenta e improvvisa. Mi ha detto che potevo andare al refettorio per la cena. Ma non avevo fame. Allora mi ha offerto di portarmi una tazza di caffelatte. Siccome il caffelatte mi piace molto, ho accettato e lui è ritornato dopo un istante con un vassoio. Ho bevuto. Poi ho avuto voglia di fumare ma ho esitato perché non sapevo se potevo farlo davanti alla mamma. Ho riflettuto, e non aveva nessuna importanza. Ho offerto una sigaretta al portinaio e abbiamo fumato insieme.

A un certo punto mi ha detto: “Sapete, gli amici della vostra signora madre verranno anche loro a vegliarla. È l’uso. Bisogna che vada a prendere delle sedie e del caffè nero.” Gli ho chiesto se si poteva spegnere una delle lampadine: lo sfolgorio della luce sulle pareti bianche mi stancava. Lui mi ha detto che non era possibile. L’installazione era fatta così: tutto o niente. Poi non ho più fatto molta attenzione a quel che faceva è uscito, è rientrato, ha disposto delle sedie e su una ha messo parecchie tazze intorno a una caffettiera Poi si è seduto di fronte a me dall’altra parte della mamma. Anche l’infermiera era in fondo da quella parte, e mi voltava la schiena. Non vedevo quel che faceva, ma dal movimento delle sue braccia ho supposto che lavorasse a maglia. La temperatura era dolce, il caffè mi aveva scaldato e dalla porta aperta entrava un odore di notte e di fiori. Credo di aver sonnecchiato un po’. È stato un fruscio a risvegliarmi. Dopo aver tenuti chiusi a lungo gli occhi, la stanza mi è parsa ancora più sfolgorante di bianco. Davanti a me non c’era neppure un’ombra e ogni oggetto, ogni angolo, tutte le curve si disegnavano con una purezza che feriva lo sguardo. E in quel momento, che sono entrati gli amici della mamma. Erano una dozzina in tutto e sfilavano silenziosamente in quella luce accecante. Si sono seduti senza che una sola delle sedie scricchiolasse. Li vedevo come non ho mai visto alcuno e non mi sfuggiva il minimo particolare dei loro volti e dei loro vestiti. Eppure non li udivo e mi era difficile credere alla loro realtà. Quasi tutte le donne portavano un grembiale e il cordone che stringeva loro la vita faceva risaltare ancor di più il loro ventre rotondo. Non avevo mai osservato prima d’allora fino a qual punto le vecchie donne possono avere la pancia. Gli uomini erano quasi tutti molto magri e avevano il bastone. Quello che mi colpiva di più nelle loro facce, è che non vedevo i loro occhi, ma soltanto un lume senza splendore in mezzo a un nido di rughe. Quando sono stati seduti quasi tutti mi hanno guardato e hanno scosso la testa imbarazzati, le labbra tutte mangiate nelle loro bocche senza denti, e non potevo capire se mi salutavano oppure se si trattava di un tic. Ma ho l’impressione che mi salutassero. È a questo punto, che mi sono accorto che erano tutti seduti di fronte a me a dondolare la testa, attorno al portinaio. Ho avuto per un istante l’impressione ridicola che fossero lì per giudicarmi. Poco dopo una delle donne si è messa a piangere. Era nella seconda fila, nascosta da una delle compagne e la vedevo male. Piangeva a piccoli singulti, regolarmente: mi sembrava che non si sarebbe fermata più. Gli altri avevano l’aria di non sentirla. Erano accasciati, tristi e silenziosi. Guardavano la bara o il loro bastone, o un’altra cosa qualunque, ma non guardavano che quella cosa. La donna piangeva sempre. Ero molto stupito perché non la conoscevo; avrei voluto non sentirla più, ma tuttavia non osavo dirglielo. Il portinaio si è chinato verso di lei, le ha parlato, ma la donna ha scosso la testa, ha biascicato qualcosa e ha continuato a piangere con la stessa regolarità. Allora il portinaio è venuto dalla mia parte. Si è seduto vicino a me. Dopo un silenzio piuttosto lungo, mi ha informato senza guardarmi: “Era molto affezionata alla vostra signora mamma. Dice che era la sola amica che aveva qui e che adesso non ha più nessuno.”

Siamo rimasti parecchio tempo così. I sospiri e i singhiozzi della vecchia si sono fatti meno frequenti. Respirava grosso, e infine non si è sentita più. Io non avevo più sonno, ma ero stanco e mi facevano male le reni. Quel che era insopportabile, adesso, era il silenzio di tutta quella gente. Sentivo solo, di tanto in tanto, un rumorino strano e non riuscivo a comprendere che cosa fosse. Finalmente mi sono accorto che alcuni dei vecchi si succhiavano l’interno delle guance e così si lasciavano sfuggire quegli schiocchi curiosi. Loro non se ne accorgevano, tanto erano assorti nei loro pensieri. Avevo addirittura l’impressione che quella morta, coricata lì in mezzo a loro, non significasse niente ai loro occhi. Ma adesso credo che fosse un’impressione sbagliata. Abbiamo tutti bevuto il caffè servito dal portinaio. Poi, non so altro. La notte è passata. Mi ricordo che a un certo momento ho aperto gli occhi e ho visto che i vecchi dormivano, abbandonati su se stessi, ad eccezione di uno che, puntando il mento sul dorso delle mani appoggiate al bastone, mi guardava fisso come se non aspettasse che il mio risveglio. Poi ho dormito ancora. Mi sono svegliato perché avevo sempre più male alle reni. La luce del giorno cominciava a scivolare sulla vetrata. Poco dopo uno dei vecchi si è svegliato e ha tossito a lungo. Sputava in un gran fazzoletto a quadri e ognuno dei suoi sputi era come uno strappo. Gli altri si sono svegliati e il portinaio ha detto che dovevano andare via. Si sono alzati tutti. Dopo quella scomoda veglia le loro facce erano cineree. Nell’uscire, tutti, con mio grande stupore, mi hanno stretto la mano come se quella notte in cui non avevamo scambiato parola avesse aumentato la nostra intimità.

Ero stanco. Il portinaio mi ha accompagnato nella sua stanza e ho potuto fare un po’ di toilette. Ho ancora preso del caffelatte che era molto buono. Quando sono uscito era già completamente giorno. Al di sopra delle colline che separano Marengo dal mare, il cielo era pieno di macchie rosa. E il vento che passava su quelle colline portava con sé un profumo di sale. Si stava preparando una bella giornata. Era molto tempo che non andavo in campagna e sentivo quanto mi avrebbe fatto piacere passeggiare se non ci fosse stata la mamma.

Ma sono rimasto ad aspettare nel cortile, sotto un platano. Respiravo l’odore della terra fresca e non avevo più sonno. Ho pensato ai colleghi d’ufficio. A quell’ora si alzavano per andare al lavoro: per me era sempre l’ora più difficile. Ho riflettuto ancora un po’ a queste cose, ma poi mi ha distratto una campana che risuonava all’interno dell’edificio. C’è stato del movimento dietro le finestre, poi tutto è ridiventato calmo. Il sole era salito un po’ più alto nel cielo: cominciava a scaldarmi i piedi. Il portinaio ha traversato il cortile e mi ha detto che il direttore mi faceva chiamare. Sono andato nel suo ufficio e mi ha fatto firmare un certo numero di carte. Ho visto che era vestito di nero, con i calzoni rigati. Ha preso in mano il telefono e mi ha detto: “Gli impiegati delle pompe funebri sono già qui. Ora dovrò dare l’ordine di chiudere la bara. Volete prima vedere vostra madre un’ultima volta?” Ho risposto di no e lui ha dato l’ordine per telefono, abbassando la voce: “Figeac, di’ agli uomini che comincino pure.”

Poi mi ha detto che avrebbe assistito ai funerali e l’ho ringraziato. Si è seduto alla scrivania, ha incrociato le sue gambette. Mi ha avvertito che saremmo stati soli, lui e io, con l’infermiera di servizio. Di regola i pensionanti non dovevano assistere ai funerali. Permetteva soltanto che vegliassero: “è una questione di umanità,” ha osservato. Ma nel caso particolare aveva concesso l’autorizzazione di seguire l’accompagnamento a un vecchio amico della mamma: Tommaso Perez. A questo punto il direttore ha sorriso. Mi ha detto: “Capirete, è un sentimento un po’ puerile. Ma lui e vostra madre erano sempre insieme. All’ospizio, li prendevano in giro, dicevano a Perez: ‘è la tua fidanzata.’ Lui rideva. Era una cosa che faceva loro piacere. E senza dubbio la morte della signora Meursault è stata un colpo duro per lui. Non ho creduto di dovergli rifiutare l’autorizzazione. Ma su consiglio del medico visitatore, gli ho vietato la veglia di ieri.”

Siamo rimasti in silenzio abbastanza a lungo. Il direttore si è alzato e si è messo a guardare fuori dalla finestra del suo ufficio. A un certo momento ha osservato: “Ecco che arriva il parroco di Marengo. È in anticipo.” Mi ha avvertito che ci sarebbero voluti quasi tre quarti d’ora di cammino per arrivare alla chiesa che è proprio in paese. Siamo scesi. Davanti al piccolo edificio c’era il parroco con due chierici. Uno di loro aveva in mano un incensiere e il prete era chino a regolare la lunghezza della catenella d’argento. Quando siamo arrivati, il prete si è alzato. Mi ha chiamato “figlio mio”, e mi ha detto qualche parola. È entrato: io l’ho seguito.

Subito ho visto che le viti della bara erano tutte conficcate nel legno e che c’erano nella stanza quattro uomini neri. Allo stesso tempo ho udito il direttore che mi diceva: “Il carro sta aspettando in strada”, e il prete che cominciava le sue preghiere. A partire da quel momento, tutto ha proceduto molto rapidamente. Gli uomini si sono avanzati con un drappo verso la bara. Il prete, i suoi assistenti, il direttore ed io siamo usciti. Davanti alla porta c’era una signora che non conoscevo. “Il signor Meursault,” ha detto il direttore. Non ho udito il nome della signora, ho soltanto compreso che era l’infermiera delegata. Ha inclinato, senza un sorriso, il viso lungo e ossuto. Poi ci siamo messi da parte per lasciar passare la bara. Abbiamo seguito i portatori e siamo usciti dall’ospizio. Davanti alla porta c’era il carro funebre. Verniciato, oblungo e lucido, faceva pensare a un portapenne. Di fianco ho visto l’incaricato delle pompe funebri, un ometto vestito in modo ridicolo, e lì vicino un vecchio dal fare impacciato. Ho capito che era il signor Perez. Aveva un feltro a larghe tese con la calotta rotonda (se l’è tolto quando la bara ha passato la porta), un abito con i calzoni troppo lunghi, e un fiocco di stoffa nera troppo piccolo per la sua camicia dal gran collo bianco. Le labbra gli tremavano, sotto il naso cosparso di punti neri. I capelli bianchi, abbastanza fini, lasciavano apparire due strane orecchie traballanti e male orlate di cui mi colpì il color rosso sangue in quella faccia sbiadita. L’incaricato assegnò il posto ad ognuno di noi. Il parroco camminava in testa, poi veniva la vettura. Intorno, c’erano i quattro uomini. Dietro veniva il direttore, io e, per chiudere il corteo, l’infermiera delegata e il signor Perez.

Il cielo era pieno di sole. Cominciava a pesare sulla terra e il calore aumentava rapidamente. Non so perché abbiamo atteso abbastanza a lungo prima di metterci in marcia. Avevo caldo sotto i miei vestiti scuri. Il vecchietto, che si era rimesso il cappello, se l’è nuovamente tolto. Io mi ero un po’ girato dalla sua parte e lo stavo guardando, quando il direttore mi ha parlato di lui. Mi ha detto che spesso mia madre e il signor Perez andavano a passeggio la sera fino al villaggio, accompagnati da un’infermiera. Io guardavo la campagna intorno. Attraverso le linee dei cipressi che conducevano alle colline vicino al cielo, attraverso quella terra ruggine e verde, quelle case rare e ben disegnate, io comprendevo la mamma. La sera, in quei luoghi, doveva esser come una tregua melanconica. Ora, invece, il sole eccessivo che faceva sobbalzare il paesaggio, lo rendeva inumano e deprimente.

Ci siamo messi in cammino. È in quel momento che mi sono accorto che Perez zoppicava leggermente. La vettura, a poco a poco, guadagnava velocità e il vecchio perdeva terreno. Anche uno degli uomini che erano intorno al carro si era lasciato distaccare e camminava ora alla mia altezza. Ero stupito della rapidità con cui il sole saliva nel cielo. Mi sono accorto che già da parecchio tempo la campagna ronzava del canto degli insetti e di crepitii d’erba. Il sudore mi colava sulle guance. Siccome non avevo cappello, mi facevo vento col fazzoletto. L’impiegato delle pompe funebri mi ha detto allora qualcosa che non ho capito. Intanto si asciugava il cranio con un fazzoletto che aveva nella sinistra, mentre con la destra teneva sollevata la visiera del suo berretto. Gli ho chiesto: “Come?” Ha risposto indicando il cielo: “Batte forte.” Ho detto: “Sì.” Un po’ più tardi mi ha domandato: “è sua madre, quella?” Ho detto ancora: “Sì.” “Era vecchia?” Ho risposto: “Così, così” perché non sapevo il numero esatto. Poi non ha più parlato. Mi sono voltato e ho visto il vecchio Perez a una cinquantina di metri dietro di noi. Andava più in fretta che poteva, agitando il feltro che aveva in mano. Ho guardato anche il direttore. Camminava con molta agilità, senza un gesto inutile. Qualche goccia di sudore gli imperlava la fronte, ma egli non l’asciugava.

Mi parve che il convoglio andasse un po’ più veloce. Intorno a me c’era sempre quella campagna luminosa, traboccante di sole. Lo sfolgorio del cielo era accecante. A un certo punto siamo passati su un tratto della strada che era stato rifatto recentemente. Il sole aveva reso molle l’asfalto. I piedi vi affondavano e lasciavano aperta la sua carne luccicante. In alto, sul carro, il cappello di cuoio lucido del cocchiere sembrava fosse stato intriso in quella melma nera. Ero un po’ perso fra il cielo azzurro e bianco e la monotonia di quei colori, nero vischioso dell’asfalto aperto, nero sbiadito degli abiti, nero laccato della vettura. Tutto questo, il sole, l’odore di cuoio e di sterco del carro, quello di vernice e quello d’incenso, la stanchezza di una notte d’insonnia, mi confondeva la vista e le idee. Mi sono voltato ancora: Perez mi è parso molto lontano, perduto in un nembo di caldo, poi non l’ho visto più. L’ho cercato con lo sguardo: aveva abbandonato la strada e preso la via dei campi. Ho constatato anche che davanti a me la strada faceva una curva. Ho compreso che Perez, che conosceva i luoghi, tagliava per la via più corta per raggiungerci. Alla curva successiva era di nuovo con noi. Poi l’abbiamo perduto. Ha preso ancora la via dei campi e così ha fatto parecchie volte. Io sentivo il sangue che mi batteva alle tempie.

In seguito tutto si è svolto con tanta precipitazione e esattezza, tutto è stato così naturale, che non mi ricordo più nulla. Una cosa soltanto: all’entrata della chiesa, l’infermiera delegata mi ha parlato. Aveva una voce strana, che non si accordava al suo viso, una voce melodiosa e tremante. Mi ha detto: “Se si va lentamente, si rischia di prendere un’insolazione. Ma se si va troppo in fretta si suda, e in chiesa ci si busca un raffreddore.” Aveva ragione. Non c’era via d’uscita. Mi è rimasta qualche altra immagine di quella giornata: per esempio la faccia di Perez quando, per l’ultima volta, ci ha raggiunti prima del villaggio. Grosse lacrime di stanchezza e di pena gli scendevano sulle guance.

Ma, per via delle rughe, non gli colavano giù; si distendevano, si raccoglievano, e formavano una vernice d’acqua su quel viso distrutto. C’è stata ancora la chiesa e i paesani sui marciapiedi, i gerani rossi sulle tombe del cimitero, lo svenimento di Perez (lo si sarebbe detto un burattino rotto), la terra color sangue che rotolava sulla bara della mamma, la carne bianca delle radici che v’erano mescolate, ancora gente, voci, il villaggio, l’attesa davanti a un caffè, il rombo incessante del motore, e la mia gioia quando l’autobus è entrato nel nido di luci di Algeri e ho pensato che sarei andato a letto e avrei dormito dodici ore.

 

2.

Svegliandomi ho capito perché il principale aveva l’aria scontenta quando gli ho chiesto i due giorni di libertà: oggi è sabato. L’avevo per così dire dimenticato, ma nell’alzarmi mi è venuto in mente. Il mio principale, si capisce, ha pensato che così avrei avuto quattro giorni di vacanza con la domenica, e questo non poteva fargli piacere. Ma in fondo non è colpa mia se hanno sotterrato la mamma ieri invece di oggi, e del resto avrei avuto in ogni modo vacanza il sabato e la domenica. Naturalmente questo non mi impedisce di comprendere benissimo il mio principale.

Ho faticato ad alzarmi perché ero stanco della giornata di ieri. Mentre mi radevo mi sono chiesto che cosa avrei fatto e ho deciso di andare a nuotare. Sono andato col tram allo Stabilimento Bagni del porto. Lì mi sono tuffato; sul molo c’era una folla di ragazzetti. In acqua ho trovato Maria Cardona, una ex dattilografa del mio ufficio che mi aveva fatto voglia a suo tempo; anch’io a lei, credo. Ma se n’era andata subito e ci era mancato il tempo. L’ho aiutata a salire su una boa, e in quel movimento le ho sfiorato i seni. Ero ancora in acqua e lei era già stesa col ventre sulla boa. Si è voltata verso di me: aveva i capelli sugli occhi e rideva. Sono salito di fianco a lei sulla boa; si stava bene e come per scherzare ho abbandonato la testa all’indietro e l’ho appoggiata sul suo ventre. Lei non ha detto nulla e sono rimasto così. Avevo negli occhi tutto il cielo e era blu e oro. Sotto la nuca sentivo il ventre di Maria battere dolcemente. Siamo rimasti a lungo sulla boa, mezzi addormentati. Quando il sole ha cominciato a scottare troppo, lei si è tuffata e io l’ho seguita. L’ho raggiunta, le ho passato una mano intorno alla vita e abbiamo nuotato insieme. Lei continuava a ridere. Sul molo, mentre ci asciugavamo, mi ha detto: “Sono più nera io di lei.” Le ho domandato se voleva venire al cinema, la sera. Ha riso ancora e mi ha detto che aveva voglia di vedere un film con Fernandel. Quando ci siamo vestiti, è parsa molto sorpresa di vedermi con una cravatta nera e mi ha chiesto se ero in lutto. Le ho detto che la mamma era morta. Siccome voleva sapere quando, le ho risposto: “Ieri.” Lei si è come ritratta un po’, ma non ha detto nulla. Io stavo per dirle che non era colpa mia, ma mi sono trattenuto perché ho pensato che l’avevo già detto al mio principale. E poi non significava nulla. In un modo o nell’altro si è sempre un po’ in colpa.

La sera Maria aveva tutto dimenticato. Il film era divertente a tratti, poi diventava davvero troppo stupido. Lei aveva la gamba contro la mia. Io le carezzavo i seni. Quando il film stava per finire, l’ho baciata, ma male. Dopo il cinema, è venuta da me.

Quando mi sono svegliato, Maria era già uscita. Mi aveva spiegato che doveva andare da sua zia. Mi è venuto in mente che era domenica e questo mi ha dato noia: la domenica non mi piace. Allora mi sono rivoltato nel letto, ho cercato nel cuscino il profumo di sale che avevano lasciato i capelli di Maria e ho dormito fino alle dieci. Poi ho fumato molte sigarette sempre in letto, fino a mezzogiorno. Non volevo andare a mangiare da Celeste come il solito, perché mi avrebbero certo fatto delle domande ed è una cosa che non mi piace. Mi sono fatto delle uova al burro e le ho mangiate dentro la padella, senza pane perché non ce n’era e non avevo voglia di andar giù a comprarlo.

Dopo mi sono annoiato un po’, e ho vagato da una camera all’altra. Era un appartamento comodo, quando c’era la mamma. Adesso è troppo grande per me e ho dovuto trasportare in camera mia la tavola della sala da pranzo. Non vivo più che in questa stanza, fra le sedie impagliate in cui si affonda un po’, l’armadio che ha la specchiera ingiallita, la toilette e il letto di ottone. Il resto è abbandonato. Un po’ più tardi, tanto per far qualcosa, ho preso un vecchio giornale e l’ho letto. Ho ritagliato una réclame dei sali Kruschen e l’ho incollata su un vecchio quaderno dove metto le cose divertenti che trovo sui giornali. Mi sono anche lavato le mani e infine mi sono messo al balcone. La mia camera dà sulla via principale del quartiere. Il pomeriggio era bello. Il lastricato era tuttavia umido, i passanti ancora rari e affrettati. Erano in principio famiglie che andavano a passeggio, due ragazzini vestiti alla marinara, coi calzoni più giù del ginocchio, un po’ goffi dentro la stoffa rigida, e una bambina con un gran fiocco rosa e delle scarpe nere di vernice. Dietro a loro una madre enorme, vestita. di seta marrone, e il padre, un ometto piuttosto esile che conosco di vista. Aveva una paglietta, una cravatta a farfalla e un bastone da passeggio. Vedendolo con sua moglie, ho capito perché nel quartiere si diceva che era una persona distinta. Un po’ più tardi passarono i ragazzi del sobborgo, coi capelli impomatati e delle cravatte rosse, la giacca molto aderente con un fazzoletto ricamato nel taschino e delle scarpe a punta quadra. Certo andavano nei cinema del centro. Era per questo che uscivano di casa così presto e correvano per prendere il tram, ridendo forte.

Passati loro, la strada è diventata a poco a poco deserta. Gli spettacoli dovevano essere cominciati dappertutto. Non c’erano più, nella strada, che i bottegai ed i gatti. Il cielo era puro ma senza splendore, sopra i fichidindia ai lati della strada. Sul marciapiede di fronte, il tabaccaio ha tirato fuori una sedia, l’ha sistemata davanti alla sua porta, e ci si è messo sopra a cavalcioni appoggiandosi con le mani allo schienale. I tram, poco prima gremiti, erano quasi vuoti. Nel piccolo caffè “Da Pierrot”, che è di fronte al tabaccaio, il cameriere scopava della segatura nella sala deserta. Era veramente domenica. Ho girato la mia sedia e l’ho messa come quella del tabaccaio perché ho trovato che era più comodo. Ho fumato due sigarette, sono entrato in camera a prendere un pezzo di cioccolata e sono venuto a mangiarla al balcone. Poco dopo il cielo si è infoschito e ho creduto che ci sarebbe stato un temporale estivo. Ma a poco a poco si è schiarito di nuovo. Il passaggio delle nubi, però, aveva lasciato sulla strada come una promessa di pioggia che l’ha fatta diventare più scura. Sono rimasto a lungo ad osservare il cielo.

Alle cinque sono arrivati dei tram, rumorosi. Riportavano dallo stadio della periferia grappoli di spettatori stipati sui predellini, attaccati ai parapetti. Sui tram successivi c’erano i giocatori che ho riconosciuto dalle loro valigette. Urlavano e cantavano a pieni polmoni che non sarebbe mai perita la loro società. Molti mi hanno fatto dei saluti. Uno mi ha persino gridato: “Li abbiamo fregati.” E io ho fatto segno di sì con la testa. A partire da quel momento le automobili hanno cominciato a affluire.

La giornata è andata avanti ancora un poco. Al di sopra dei tetti il cielo è divenuto rossastro e mentre nasceva la sera le vie si sono animate. Quelli che erano andati a passeggio ritornavano a poco a poco. Ho riconosciuto, in mezzo ad altri, il signore distinto. I bambini piangevano e si facevano trascinare. Quasi subito i cinema del rione hanno riversato sulla strada la folla degli spettatori. I ragazzi che uscivano avevano gesti molto decisi e ho pensato che dovevano aver visto un film d’avventure. Quelli che tornavano dai cinema del centro arrivarono un po’ più tardi. Avevano l’aria più grave. Ridevano, sì, ma di tanto in tanto sembravano stanchi e trasognati. Sono rimasti sulla strada, ad andare e venire sul marciapiede di fronte. Le ragazze del rione, senza cappello, camminavano tenendosi a braccetto. I ragazzi facevano in modo di incrociarle passando e dicevano delle spiritosaggini di cui esse ridevano voltando la testa dall’altra parte. Parecchie di loro, che conoscevo, mi hanno fatto segno con la mano.

Poi i lampioni della strada si sono illuminati d’improvviso e hanno fatto impallidire le prime stelle che sorgevano nella notte. Ho sentito i miei occhi affaticarsi a guardare i marciapiedi con il loro carico di uomini e di luci. I lampioni facevano luccicare il lastricato umido, e i tram, a intervalli regolari, illuminavano dei capelli lucidi, un sorriso o un braccialetto d’argento. Poco dopo, i tram divenuti più rari e la notte già nera sopra i lampioni e le piante, il sobborgo si è svuotato a poco a poco, fino a che il primo gatto traversò lentamente la strada ritornata deserta. Ho pensato che bisognava cenare. Mi faceva un po’ male il collo a esser rimasto appoggiato tanto tempo sulla spalliera della sedia. Sono andato giù a prendere del pane e della pasta, mi sono fatto da mangiare e ho cenato in piedi. Ancora ho voluto fumare una sigaretta alla finestra; ma l’aria si era rinfrescata e ho sentito un po’ freddo. Ho chiuso i vetri e rientrando ho visto riflesso nello specchio un angolo della tavola con il fornello a spirito, accanto a dei pezzi di pane. Ho pensato che era sempre un’altra domenica passata, che adesso la mamma era seppellita, che avrei ripreso il lavoro; e tutto sommato non era cambiato nulla.

 

3.

Oggi ho avuto molto da fare in ufficio. Il principale è stato gentile: mi ha domandato se non ero troppo stanco e ha voluto anche sapere che età aveva la mamma. Ho detto: “Una sessantina d’anni”, per non sbagliarmi e lui, non so perché, ha avuto l’aria di provare un certo sollievo, e di considerare che era una faccenda esaurita.

C’era una quantità di pratiche che si erano accumulate sulla mia scrivania e ho dovuto farle passare a una a una. Prima di uscire dall’ufficio per andare a colazione, mi sono lavato le mani. Per me quello è un momento molto piacevole, a mezzogiorno. La sera il piacere è minore perché l’asciugamano girevole che si adopera è tutto umido: ha servito per tutto il giorno. Una volta l’ho fatto notare al principale. Lui mi ha risposto che trovava spiacevole la cosa, ma che era comunque un particolare senza importanza. Sono uscito un po’ tardi, a mezzogiorno e mezzo, con Emanuele che lavora al reparto spedizioni. L’ufficio guarda sul mare e siamo rimasti un momento a osservare i cargos nel porto bruciante di sole. In quel momento è arrivato un camion con un gran fragore di catene e di scoppi. Emanuele mi ha chiesto se “si saltava su” e io mi sono messo a correre. Il camion ci ha sorpassati e l’abbiamo rincorso. Io affogavo nel frastuono e nella polvere. Non ci vedevo più e non sentivo che la foga disordinata della corsa, con i verricelli e gli alberi delle navi che danzavano all’orizzonte e gli scafi che ci passavano di fianco. Io mi sono aggrappato per primo e sono saltato su, al volo. Poi ho aiutato Emanuele a sedersi. Eravamo senza fiato e il camion saltava sul lastricato ineguale del lungomare, in mezzo alla polvere e al sole. Emanuele rideva da non poterne più.

Siamo arrivati da Celeste in un bagno di sudore. Era lì come sempre, col suo pancione, il suo grembiale e i suoi baffi bianchi. “Come va?” mi ha chiesto. Gli ho detto che avevo fame. Ho mangiato molto in fretta e ho preso un caffè. Poi sono tornato a casa, ho dormito un po’ perché avevo bevuto troppo vino e quando mi sono svegliato ho avuto voglia di fumare una sigaretta. Si era fatto tardi e ho dovuto correre per raggiungere un tram. Ho lavorato tutto il pomeriggio; in ufficio faceva molto caldo e la sera, all’uscita, sono stato felice di risalire a piedi, lentamente, tutto il lungomare. Il cielo era verde, mi sentivo contento. Ma sono tornato diritto a casa perché volevo farmi delle patate lesse.

Salendo le scale buie, ho urtato il vecchio Salamano, il mio vicino di pianerottolo. Era col suo cane. Sono otto anni che li si vede insieme: Lo spaniel ha una malattia della pelle, la rogna, credo, che gli fa perdere quasi tutto il pelo e lo copre di placche e di croste scure. A forza di vivere con lui, tutt’e due insieme in una stanzetta, il vecchio Salamano ha finito per somigliargli. Ha delle croste rossastre sul viso e pelo giallo e rado. Il cane, da parte sua, ha preso dal padrone un modo di camminare tutto curvo, col muso in avanti e il collo teso. Sembrano della stessa razza e tuttavia si detestano. Due volte al giorno, alle undici e alle sei, il vecchio porta il suo cane a passeggio. Da otto anni non cambiano il loro itinerario. Si può vederli lungo la rue di Lyon, il cane che tira l’uomo fino a che Salamano inciampa; allora il vecchio bastona il cane e lo insulta. Il cane s’accovaccia per il terrore e si impunta. A questo punto tocca al vecchio tirarlo. Quando il cane non se ne ricorda più, ricomincia a tirare il padrone e di nuovo è battuto e insultato. Allora restano tutt’e due fermi sul marciapiede e si stanno a guardare, il cane pieno di terrore, l’uomo di odio. È così tutti i giorni. Quando il cane vuole orinare, il vecchio non gliene lascia il tempo e lo tira, e lo spaniel semina dietro di sé una scia di goccioline. Se per caso il cane sporca nella camera, è bastonato di nuovo. Sono otto anni che dura questa storia. Celeste dice sempre che “è una disgrazia”, ma in fondo chi può saperlo? Quando l’ho incontrato per le scale, Salamano stava insultando il cane. Gli diceva: “Maledetto! Carogna!” e il cane gemeva. Io ho detto: “Buongiorno”, ma il vecchio ha continuato a insultarlo. Allora gli ho chiesto cosa aveva fatto il cane. Lui non mi ha risposto. Diceva soltanto: “Maledetto! Carogna!” Era chino sul cane e doveva essere occupato a sistemargli qualcosa nel collare. Ho parlato più forte. Allora, senza voltarsi, mi ha risposto con una specie di furia repressa: “è sempre qui.” Poi se n’è andato tirando la bestia che si lasciava trascinare sulle quattro zampe, e piangeva.

Proprio in quel momento è entrato in casa l’altro mio vicino di pianerottolo. Nel rione dicono che è uno sfruttatore di donne. Lui, quando gli si domanda che cosa fa, dice che è magazziniere. Per lo più la gente non gli vuol bene. Ma parliamo spesso insieme e qualche volta passa un momento da me perché io lo sto ad ascoltare: trovo che quel che dice è interessante. Del resto non ho alcuna ragione di non parlargli. Si chiama Raimondo Synthés. È piuttosto basso, con spalle quadrate e un naso da pugile. È sempre vestito molto decentemente. Anche lui mi ha detto, parlando di Salamano: “Guarda un po’ che disgrazia!” Mi ha chiesto se non mi faceva schifo e gli ho risposto di no.

Siamo saliti insieme e stavo per lasciarlo quando mi ha detto: “Ho dei sanguinacci, da me, e del vino. Non vuol venire a mangiare un boccone?” Ho pensato che questo mi evitava di preparare la cena, e ho accettato. Anche lui ha soltanto una camera, con una cucina senza finestra. Sopra il suo letto c’è un angelo di stucco bianco e rosa, delle fotografie di campioni e due o tre ritratti di donne nude. La camera era sporca e il letto disfatto. Prima ha acceso la lampada a petrolio, poi ha tirato fuori di tasca una benda di colore incerto e si è messo a fasciarsi la mano destra. Gli ho chiesto che cosa avesse. Mi ha raccontato che aveva fatto a pugni con un tale che andava in cerca di grane.

“Lei mi capisce, signor Meursault,” mi ha detto, “non è mica che io sia cattivo, ma sono vivace. Quando quell’altro mi ha detto: ‘Scendi dal tram se sei un uomo,’ io gli ho risposto: ‘Va là, va là, sta tranquillo.’ Lui mi ha detto che non ero un uomo. Allora sono sceso giù e gli ho detto: ‘Piantala che è meglio per te, oppure ti curo io’. Lui mi ha risposto: ‘Di cosa?’ Allora gliene ho mollato uno. È caduto. Io, stavo per tirarlo su. Ma lui, steso lì per terra, ha cominciato a tirare calci.

Allora gli ho dato un colpo di ginocchio e due col tacco. Aveva la faccia insanguinata. Gli ho chiesto se gli bastava. Lui mi ha detto: ‘Sì.’” Durante tutto questo tempo Synthés metteva a posto la sua fasciatura. Io ero seduto sul letto. E mi ha detto: “Lei vede che non sono stato io a provocarlo. È stato lui che ha mancato il colpo.” Era vero e l’ho riconosciuto anch’io. Allora mi ha detto che per l’appunto voleva chiedermi un consiglio a proposito di quella faccenda, che io ero un uomo che conosceva la vita, che potevo aiutarlo e che poi lui sarebbe stato mio amico. Io non ho detto niente e lui mi ha chiesto ancora se volevo essere suo amico. Gli ho detto che per me era lo stesso e lui ha avuto l’aria contenta Ha tirato fuori il sanguinaccio, l’ha fatto friggere nella padella, e ha preparato i bicchieri, i piatti e due bottiglie di vino. Tutto questo in silenzio. Poi ci siamo messi a tavola. Mangiando ha cominciato a raccontarmi la sua storia. In principio esitava un po’: “Conoscevo una signora... tant’è dire che era la mia amante...”. L’uomo con cui aveva avuto la rissa era il fratello di quella donna. Lui la manteneva, ha detto. Io non ho risposto niente, ma lui ha aggiunto subito che sapeva quel che dicevano di lui nel rione, ma che gli bastava la sua coscienza e che lui faceva il magazziniere. “Per venire alla mia faccenda,” mi ha detto, “mi sono accorto che c’era del marcio.”

Lui le dava il necessario per vivere. Pagava lui l’affitto della camera e le dava venti franchi al giorno per mangiare. “Trecento franchi di camera, seicento di mangiare, un paio di calze di tanto in tanto, son subito mille franchi. E madama non lavorava, ma mi diceva che era appena appena, che non ci stava dentro con quel che le davo. E pensare che le dicevo: ‘Ma perché non lavori una mezza giornata? Mi solleveresti molto per tutte le piccole cose. Ti ho comprato un vestito questo mese, ti do venti franchi al giorno, ti pago l’affitto, e tu bevi il caffè il pomeriggio con le tue amiche. Gli dai il caffè e lo zucchero, alle tue amiche, e sono io a dare i soldi. Io ho agito bene con te e tu mi ricambi male.’ Ma lei non lavorava, diceva sempre che non ci stava dentro ed è così che mi sono accorto che c’era del marcio.

Mi ha raccontato allora che aveva trovato un biglietto di lotteria nella sua borsetta e lei non aveva potuto spiegargli come avesse fatto a comprarlo. Un po’ più tardi, aveva trovato un “documento” del monte di pietà che provava che lei aveva impegnato due braccialetti. Sino a quel momento, lui ignorava l’esistenza di quei braccialetti. “Ho visto chiaro che c’era del marcio. Allora l’ho piantata. Ma prima gliele ho date. E poi le ho detto il fatto suo. Le ho detto che tutto quello che lei voleva, era di divertirsi con la sua cosa. Lei capisce come gliel’ho detto, signor Meursault: ‘Tu non capisci che il mondo è geloso della felicità che io ti do. Ti accorgerai un giorno della felicità che avevi’.” L’aveva battuta a sangue. Prima di allora, non l’aveva mai bastonata. “Gliele davo, ma per così dire dolcemente. Lei strillava un po’. Io chiudevo le imposte e tutto andava a finire come il solito. Ma adesso, è una cosa seria. E per conto mio non l’ho punita abbastanza.”

Allora mi ha spiegato che era per questo che aveva bisogno di un consiglio. Si è interrotto per tirare un po’ più su lo stoppino del fornello a spirito che era tutto carbonizzato. Io lo ascoltavo sempre. Avevo bevuto quasi un litro di vino e avevo molto caldo alle tempie. Fumavo le sigarette di Raimondo perché avevo finite le mie. Passavano gli ultimi tram portando via con sé i rumori ormai lontani del quartiere. Raimondo ha continuato a parlare. Quel che gli seccava “era di aver ancora una certa nostalgia per il suo coito”. Ma la voleva punire. Aveva dapprima pensato di portarla in un albergo e chiamare il “costume” per provocare uno scandalo e farla mettere sulla lista. Poi si era rivolto a degli amici che aveva nella “vita”. Non avevano trovato nulla. E come mi faceva notare Raimondo, bel vantaggio si aveva a essere della “vita”. Gliel’aveva detto anche a loro, e quelli gli avevano proposto di “marcarla”. Ma non era questo che lui voleva. Insomma, ci avrebbe pensato ancora. Ma prima voleva chiedermi una cosa. Anzi, prima di chiedermela, voleva sapere cosa pensavo della faccenda. Gli ho risposto che non ne pensavo niente, ma che era interessante. Mi ha chiesto se credevo anch’io che ci fosse del marcio, e a me, pareva sì che ci fosse del marcio; se secondo me si doveva punirla e cosa avrei fatto al suo posto, e io gli ho detto che non si può mai dire, ma che capivo bene che lui volesse punirla. Ho bevuto ancora un po’ di vino. Lui ha acceso una sigaretta e mi ha detto qual era la sua idea. Voleva scriverle una lettera in cui ci fossero delle pedate e allo stesso tempo delle cose per farle venire rimorso. Poi, quando la ragazza fosse venuta, sarebbe andato a letto con lei e “proprio al momento di finire” le avrebbe sputato in faccia e l’avrebbe buttata fuori. Ho trovato che, effettivamente, a questo modo sarebbe stata punita. Ma Raimondo mi ha detto che non si sentiva capace di fare la lettera che ci voleva e che aveva pensato a me per buttarla giù. Siccome io non dicevo niente, mi ha chiesto se mi seccava di farlo subito, e io gli ho risposto di no.

Allora si è alzato dopo aver bevuto un bicchiere di vino. Ha messo da parte i piatti e quel po’ di sanguinaccio freddo che avevamo lasciato lì. Ha asciugato con molta cura la tela cerata del tavolo. Ha tirato fuori dal cassetto del comodino un foglio di carta quadrettata, una busta gialla, una piccola penna di legno rosso e un calamaio quadrato con dell’inchiostro viola. Quando mi ha detto il nome della donna, ho visto che era un’araba. Ho scritto la lettera. L’ho fatta un po’ come mi veniva, ma ho cercato di accontentare Raimondo perché non avevo alcuna ragione di non accontentarlo. Poi gli ho letto la lettera a voce alta. Mi ha ascoltato fumando e crollando il capo, poi mi ha chiesto di rileggerla. È stato tutto contento. Mi ha detto: “Lo sapevo bene che tu conoscevi la vita”. Al primo istante non mi sono accorto che mi dava del tu; è stato solo quando mi ha dichiarato: “Adesso, tu sei un vero amico,” che la cosa mi ha fatto un certo effetto. Ha ripetuto la frase e io ho detto: “Sì.” Per me tant’era di essere suo amico e lui sembrava che ci tenesse davvero. Ha chiuso la lettera e abbiamo finito il vino. Poi siamo rimasti un momento a fumare senza dir nulla. Fuori tutto era calmo e abbiamo udito il fruscio di una macchina che passava. Ho detto: “è tardi.” Anche Raimondo lo pensava. Ha osservato che il tempo passa presto e, in un certo senso, ero d’accordo con lui. Avevo sonno ma mi seccava di alzarmi. Dovevo aver l’aria stanca perché Raimondo mi ha detto che non bisogna lasciarsi andare. Lì per lì non ho capito cosa volesse dire; poi lui mi ha spiegato che aveva saputo della morte della mamma, ma che era una cosa che doveva succedere prima o poi. Quella era anche la mia opinione.

Mi sono alzato, Raimondo mi ha stretto la mano molto forte e mi ha detto che fra uomini ci si capisce sempre. Uscendo ho richiuso la porta e sono rimasto un momento sul pianerottolo, al buio. La casa era calma e dal profondo della tromba delle scale veniva un soffio umido e oscuro. Non sentivo che i colpi del mio sangue che mi ronzava alle orecchie e sono rimasto immobile. Ma nella stanza del vecchio Salamano il cane ha dato un lamento sordo. Nel cuore di quella casa piena di sonno, il gemito è salito lentamente, come un fiore nato dal silenzio.

 

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