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Книга «Крёстный отец» (Il Padrino) на итальянском языке – читать онлайн

Книга «Крёстный отец» (Il Padrino) на итальянском языке – читать онлайн. Свой самый известный роман Марио Пьюзо написал в 1969-м году, и практически сразу книга стала бестселлером, а позже была переведена на разные языки мира. В 1972-м году по роману был снят фильм «Крёстный отец», автором сценария также был Марио Пьюзо.

На этой странице выложена небольшая часть книги «Крёстный отец» (Il Padrino) на итальянском языке, в конце страницы будет ссылка на продолжение романа.

Другие романы, повести и рассказы можно читать онлайн в разделе «Книги на итальянском языке».

Для любителей итальянского кино есть раздел «Фильмы и видеоуроки на итальянском».

Для тех, кто планирует изучать итальянский язык не только по книгам и фильмам, но и с преподавателем, подробная информация есть на странице «Итальянский по скайпу».

 

Теперь переходим к чтению книги «Крёстный отец» (Il Padrino) на итальянском языке.

 

Il Padrino

 

PARTE PRIMA

 

I.

 

Amerigo Bonasera sedeva nella III Sezione Penale della Corte di New York in attesa di giustizia; voleva vendicarsi di chi aveva tanto crudelmente ferito sua figlia e, per di più, tentato di disonorarla.

Il giudice, un uomo severo dai lineamenti pesanti, si arrotolò le maniche della toga nera, come se intendesse punire fisicamente i due giovanotti in piedi davanti al banco. Il suo viso esprimeva freddamente un maestoso disprezzo. In tutto questo, tuttavia, c'era qualcosa di falso che Amerigo Bonasera intuiva, ma non comprendeva ancora.

- Avete agito come la peggior specie di degenerati , - disse aspramente il giudice. «Sì, sì», - pensò Amerigo Bonasera. «Animali. Animali.» I due giovanotti, capelli lucidi tagliati a spazzola, viso tutto acqua e sapone in atteggiamento di umile contrizione, chinarono il capo in segno di sottomissione.

Il giudice continuò:

- Avete agito come bestie selvagge in una giungla e siete fortunati di non aver abusato di quella povera ragazza, altrimenti vi avrei mandato in prigione per vent'anni.

Fece una pausa e gli occhi sotto le sopracciglia straordinariamente folte ebbero un lampo furtivo verso il volto olivastro di Amerigo Bonasera; poi li abbassò su un cumulo di rapporti mensili di libertà sulla parola che aveva davanti. Aggrottò le sopracciglia e si strinse nelle spalle, come per mostrarsi convinto suo malgrado. Parlò di nuovo.

- Tuttavia, grazie alla giovane età, al fatto che siete incensurati e appartenete a famiglie rispettabili, dato che la legge nella sua magnanimità non cerca vendetta, io con questa sentenza vi condanno a tre anni di reclusione. Condanna con la libertà condizionale.

Solamente quarant’anni di lutto professionale permisero al viso di Amerigo Bonasera di non mostrare l'opprimente frustrazione e l'odio che sentiva. Sua figlia, giovane e bella, era ancora all'ospedale con una mascella fratturata, bloccata da filo metallico; ed ora questi due animali erano liberi? Una farsa! Osservò i genitori raccogliersi attorno ai cari figlioli. Oh, erano tutti contenti, ora, tutti sorridenti.

La bile nera, acidamente amara, sali nella gola di Bonasera, traboccò attraverso i denti serrati con forza. Trasse il bianco fazzoletto di lino e lo premette contro le labbra. Era in piedi in questo modo quando i due giovani percorsero liberi a lunghi passi la corsia, sicuri di sé, con occhi freddi, sorridendo, gettandogli appena uno sguardo. Li lasciò passare senza dire una parola, premendo il lino fresco contro la bocca.

I genitori degli animali stavano ora avvicinandosi: due uomini e due donne della sua età, ma più americani nel modo di vestire. Lo guardarono di sfuggita, imbarazzati, però nei loro occhi vi era una strana luce trionfante di sfida.

Perso il controllo, Bonasera si chinò in avanti verso la corsia e gridò raucamente:

- Piangerete come ho pianto io. Vi farò piangere come i vostri figli hanno fatto piangere me.

Ora aveva il fazzoletto premuto sugli occhi. Gli avvocati della difesa arrivarono da dietro e spinsero avanti i loro clienti in un gruppo ristretto, circondando i due giovanotti che erano indietreggiati lungo la corsia come a proteggere i genitori. Un gigantesco agente di servizio si mosse velocemente per bloccare la fila in cui stava Bonasera. Ma non fu necessario.

Durante tutti gli anni trascorsi in America, Amerigo Bonasera aveva confidato nella legge e nell'ordine. E perciò vi aveva prosperato. Ora, sebbene il suo cervello fosse sconvolto dall'odio, sebbene la prospettiva di comperare un fucile e uccidere i due giovanotti gli martellasse nel profondo del cranio, Bonasera si girò verso la consorte ancora ignara e le spiegò:

- Ci hanno preso in giro.

Fece una pausa e poi prese la sua decisione, senza più temere quale ne sarebbe stato il prezzo:

- Per avere giustizia dobbiamo andare in ginocchio da Don Corleone.

 

In un appartamentino lussuosamente ammobiliato di un albergo di Los Angeles, Johnny Fontane si era ubriacato per gelosia proprio come un qualsiasi comune marito. Abbandonato su un divano rosso, bevve direttamente dalla bottiglia di scotch che teneva in mano, poi si sciacquò la bocca affondandola in un secchiello di cristallo colmo di cubetti di ghiaccio e acqua. Erano le quattro del mattino e stava inseguendo fantasie da ubriaco su come uccidere la moglie quando sarebbe ritornata a casa. Se mai l'avrebbe fatto. Era troppo tardi per telefonare alla prima e chiederle delle bambine e trovava ridicolo chiamare qualcuno degli amici proprio ora che la carriera stava declinando. Un tempo sarebbero stati felicissimi di venir chiamati alle quattro del mattino, ma ora li avrebbe seccati. Poteva persino sorridere un po' al pensiero che lungo l'arco della carriera i guai di Johnny Fontane avevano affascinato alcune delle più grandi dive d'America.

Tracannando dalla bottiglia di scotch, udì finalmente sua moglie che apriva la porta, ma continuò a bere finché entrò nella stanza e gli si fermò davanti. Per lui era assolutamente bella, il viso angelico, gli espressivi occhi color viola, il corpo delicatamente fragile ma dalle forme perfette. Sullo schermo la sua bellezza veniva esaltata, spiritualizzata: centinaia di milioni di uomini sparsi in tutto il mondo erano innamorati del viso di Margot Ashton. E pagavano per vederlo sullo schermo.

- Dove diavolo sei stata? - domandò Johnny Fontane.

- Fuori a farmi scopare, - gli rispose.

Aveva valutato male la sua ubriachezza. Egli balzò oltre il mobile-bar e l'afferrò per la gola. Ma, così vicino a quel magico volto, agli affascinanti occhi violetti, la sua rabbia sbollì e divenne di nuovo impotente. Lei fece l'errore di sorridere in modo beffardo, vide il pugno di lui prepararsi a colpire. Urlò:

- Johnny, non sul viso, sto girando un film.

E rideva. La colpì con un pugno nello stomaco ed ella cadde sul pavimento. Le rovinò sopra. Ne poteva sentire l'alito fragrante mentre annaspava in cerca di aria. La colpi ancora sulle braccia e sui muscoli delle cosce delle morbide gambe abbronzate. La picchiò come aveva picchiato tanto tempo prima mocciosi più piccoli di lui, quando era un ragazzaccio nell'Hell's Kitchen di New York. Una dura punizione, ma che non avrebbe lasciato sfregi permanenti come denti dondolanti o nasi rotti.

Tuttavia non la colpiva abbastanza duramente. Non poteva. E lei stava ridendogli in faccia. A braccia spalancate sul pavimento, con la gonna di broccato sollevata oltre le cosce, lo ingiuriava fra il riso.

- Dai, mettilo dentro. Mettilo dentro, Johnny, è quello che vuoi veramente.

Johnny Fontane si alzò. Odiava la donna stesa per terra, ma la bellezza la proteggeva come uno scudo magico. Margot rotolò via e con un balzo da danzatrice fu in piedi di fronte a lui. Si mise a ballare in modo infantile, deridendolo e cantilenando:

- Johnny non mi fa mai male, Johnny non mi fa mai male.

Poi, quasi con tristezza, con il bel volto divenuto improvvisamente grave, disse:

- Povero, stupido bastardo, che mi picchia come un bambino. Ah, Johnny, sarai sempre uno stupido, romantico terrone, persino l'amore lo fai come un bambino. Credi ancora che fottere sia veramente come quelle canzoni narcotizzanti che usavi cantare.

Scosse il capo e continuò:

- Povero Johnny. Addio, Johnny.

Andò in camera da letto e la udì girare la chiave nella toppa.

Sedette sul pavimento col viso fra le mani. Una morbosa, umiliante disperazione lo sopraffece. Poi la durezza dei bassifondi che l'aveva aiutato a sopravvivere nella giungla di Hollywood gli fece alzare la cornetta del telefono e chiamare una macchina che lo accompagnasse all'aeroporto. Una sola persona poteva salvarlo. Sarebbe ritornato a New York. Sarebbe tornato a quell'unico uomo potente, della cui saggezza aveva bisogno, nel cui affetto ancora confidava. Il suo Padrino Corleone.

 

Il panettiere Nazorine, tozzo e ruvido come le sue grandi pagnotte italiane, ancora bianco di farina, guardava torvo la moglie, la figlia nubile, Katherine, e il suo aiutante, Enzo. Enzo aveva indossato l'uniforme di prigioniero di guerra col bracciale verde ed era terrorizzato dall'idea che questa scena potesse farlo arrivare in ritardo al Governor's Island. Uno delle migliaia di prigionieri dell'esercito italiano, liberati giornalmente sulla parola per lavorare a favore dell'economia americana, viveva nella costante paura che quella parola fosse revocata. E così la piccola commedia che ora stava per essere rappresentata, per lui, era una faccenda seria.

Nazorine chiese fieramente:

- Hai disonorato la mia famiglia? Hai fatto uno speciale regalino a mia figlia per farti ricordare ora che la guerra è finita e sai che l'America ti rimanderà con un calcio in culo al tuo villaggio pieno di merda in Sicilia?

Enzo, un ragazzo molto piccolo ma robusto, mise una mano sul cuore e rispose quasi in lacrime, però molto intelligentemente: - Padrone, giuro sulla Santa Vergine che non ho mai approfittato della vostra bontà. Amo vostra figlia col massimo rispetto. Ne chiedo la mano con tutto il rispetto. So di non averne diritto, ma se mi rispediscono in Italia non potrò mai ritornare in America. Non potrò mai sposare Katherine.

La moglie di Nazorine, Filomena, venne all'essenziale.

- Basta con queste sciocchezze, - disse al tozzo marito. -Sai cosa devi fare. Tieni qui Enzo, mandalo a nascondersi dai nostri cugini a Long Island.

Katherine piangeva. Era ormai grassoccia e piuttosto scialba e cominciava già ad apparire un'ombra di baffi. Mai avrebbe potuto conquistare un marito bello come Enzo, mai avrebbe trovato un altro uomo che le toccasse il corpo in posti segreti con tanto rispettoso amore.

- Andrò a vivere in Italia, - strillò al padre. -Scapperò se non terrai qui Enzo.

Nazorine le lanciò uno sguardo astuto. Era un tipo che «ci stava» questa sua figliola. L'aveva vista strofinare le natiche prosperose contro il davanti di Enzo che spingeva mentre l'aiuto panettiere riempiva le ceste del banco con le pagnotte appena tratte dal forno. La calda pagnotta del giovane briccone sarebbe finita nel forno di lei, pensava Nazorine indecentemente, se non si fossero fatti i passi necessari. Enzo doveva essere trattenuto in America e fatto cittadino americano. C'era un solo uomo che poteva sistemare una simile faccenda. Il Padrino. Don Corleone.

 

Tutte queste persone e molte altre ancora, ricevettero l'invito stampato per il matrimonio di Miss Constanzia Corleone, che doveva essere celebrato l'ultimo sabato dell'agosto 1945. Il padre della sposa, Don Vito Corleone, non dimenticava  mai i vecchi amici e i vicini, sebbene ora vivesse in una casa enorme a Long Island. Il ricevimento avrebbe avuto luogo in quella stessa casa e i festeggiamenti sarebbero continuati per tutto il giorno. Senza dubbio un avvenimento importante. La guerra coi giapponesi era appena finita, così non vi sarebbe stato alcun timore che le preoccupazioni per i figli combattenti potessero rattristare la festa. Un matrimonio era proprio quello che ci voleva, affinché la gente potesse mostrare la sua gioia.

Così quel sabato mattina gli amici di Don Corleone si rovesciarono fuori New York City per rendergli onore. Portavano buste color crema gonfie di denaro come regalo per la sposa. Niente assegni. Un biglietto da visita stabiliva l'identità del donatore e la misura del suo rispetto per il Padrino. Un rispetto pienamente guadagnato.

A Don Vito Corleone tutti si rivolgevano per aiuto senza mai venire delusi. Non faceva vane promesse e neppure avanzava scuse vili di aver le mani legate da forze più potenti. Non era necessario che fosse amico, e neppure avere i mezzi con cui ripagarlo. Una sola cosa era fondamentale. Che il supplicante, lui, lui stesso, proclamasse la sua amicizia. E allora, non aveva importanza quanto povero o quanto debole fosse, Don Corleone avrebbe preso a cuore i guai di quell'uomo. Nulla avrebbe lasciato di intentato per risolverne il caso. La sua ricompensa? Amicizia, il rispettoso titolo di «Don», e qualche volta il più affettuoso omaggio di «Padrino». Forse solamente in segno di rispetto, ma mai per interesse, qualche umile regalo: un bottiglione di vino genuino o un cestino di taralli pepati preparati apposta per allietare la sua tavola natalizia. Era sottinteso, era una mera questione di buone maniere, che ci si doveva proclamare suoi debitori e che egli aveva il diritto in qualsiasi momento di chiedere di estinguere il debito con qualche piccolo servizio.

Ora in questo grande giorno, il giorno del matrimonio della figlia, Don Vito Corleone stava sulla soglia della casa di Long Beach a ricevere gli ospiti, tutti conosciuti, tutti fidati. Molti dovevano la loro fortuna al Don e in questa occasione intima si sentivano liberi di chiamarlo apertamente «Padrino». Persino le persone che prestavano servizio erano amici. Il barista era un vecchio compagno il cui regalo consisteva in tutte le bevande alcooliche per il matrimonio e nella sua esperta prestazione. I camerieri erano compari dei figli di Corleone. Il cibo, sulle tavole da picnic in giardino, era stato cucinato dalla moglie del Don e dalle sue amiche e la decorazione ad allegri festoni del giardino grande un ettaro era stata preparata da quelle giovani e intime della sposa.

Don Corleone riceveva tutti — ricco e povero, potente e umile — con le stesse manifestazioni di affetto. Non trascurava nessuno. Tale era il suo carattere. E gli invitati, dal canto loro, proclamavano che stava tanto bene con l'abito da cerimonia, che un osservatore superficiale avrebbe potuto facilmente scambiarlo per il fortunato sposo.

In piedi sulla porta insieme a lui, c'erano due dei tre figli. Il maggiore, battezzato Santino ma chiamato Sonny da tutti tranne che dal padre, era guardato con sospetto dagli italiani più anziani; con ammirazione dai più giovani. Sonny Corleone era alto — più di 1,80 — per essere della prima generazione americana di una famiglia italiana, e la chioma di folti capelli ondulati lo faceva sembrare anche più alto. Il viso era quello di un rozzo Cupido: lineamenti regolari, labbra modellate ad arco fortemente sensuali, mento con una spaccatura che finiva in una fossetta. Era costruito poderosamente come un toro e tutti sapevano che era stato così generosamente dotato da madre natura, che la sua martirizzata moglie temeva il letto matrimoniale come un tempo i miscredenti paventavano la ruota. Si mormorava che quando, da giovanotto, frequentava le case di tolleranza, persino la più incallita e intrepida puttana, dopo una ispezione reverenziale al suo mostruoso organo, pretendeva doppia tariffa.

Qui alla cerimonia nuziale, alcune giovani matrone dai fianchi e dalle bocche larghe, valutavano Sonny Corleone con disinvolti occhi fiduciosi. Ma in questo giorno particolare perdevano il tempo. Sonny Corleone, malgrado la presenza della moglie e dei tre bambini piccoli, aveva delle mire sulla damigella d'onore della sorella, Lucy Mancini. Questa giovane ragazza, pienamente consapevole, sedeva ad un tavolo del giardino nel vestito rosa da cerimonia con una acconciatura di fiori portata sui lucidi capelli neri. Aveva civettato con Sonny durante la precedente settimana di prove e quella mattina gli aveva stretto la mano all'altare. Una nubile non poteva fare di più.

A lei non importava se egli non sarebbe mai stato il grande uomo che si era dimostrato il padre. Sonny Corleone aveva forza, aveva coraggio. Era generoso e, noto a tutti, col cuore grande come il suo organo. Però non aveva l'umiltà del padre, ma piuttosto un temperamento collerico e irascibile che lo portava ad errori di giudizio. Sebbene fosse di molto aiuto negli affari paterni, erano in parecchi a dubitare che potesse divenirne l'erede.

Il secondogenito, Federico, chiamato Fred o Fredo, era un figlio per il quale ogni italiano era disposto a benedire i santi. Rispettoso, leale, sempre a disposizione del padre, viveva ancora coi genitori all'età di trent'anni. Era piccolo e corpulento, non bello ma con la stessa faccia da Cupido della famiglia, la criniera riccioluta di capelli sopra il viso rotondo e le labbra modellate ad arco. Solamente che, in Fred, queste labbra non erano sensuali, ma come di granito. Incline all'austerità, era ancora un sostegno per il padre; non discuteva mai, non lo metteva mai in imbarazzo con un comportamento scandaloso con le donne. Malgrado tutte queste virtù non aveva quel personale magnetismo, quella forza animale, così necessari per un capo, e neppure per lui si prevedeva che potesse ereditare la guida degli affari della Famiglia.

Il terzo, Michael Corleone, non era con il padre e i fratelli, ma sedeva ad una tavola nell'angolo più appartato del giardino. Anche lì, però, non poteva sfuggire all'attenzione degli amici di famiglia.

Michael Corleone era il figlio minore del Don e l'unico che aveva rifiutato l'autorità del grande uomo. Non aveva la faccia greve da Cupido dei fratelli, e i capelli neri lucenti erano lisci piuttosto che ricciuti. La carnagione era di un marrone-oliva chiaro che sarebbe stata magnifica in una ragazza. Era bello in una maniera delicata. In realtà vi era stato un tempo in cui il Don si era preoccupato della mascolinità del figlio minore. Una preoccupazione che fu messa a tacere quando Michael Corleone compi i diciassette anni.

Ora si trovava ad una tavola all'angolo estremo del giardino per proclamare la sua scelta deliberata di ripudio del padre e della famiglia. Accanto a lui sedeva la ragazza americana di cui tutti avevano sentito parlare, ma che nessuno aveva visto sino a quel momento. Aveva, naturalmente, mostrato il dovuto rispetto e l'aveva presentata a tutti, famiglia compresa, prima della cerimonia nuziale. Non ne furono favorevolmente impressionati. Era troppo sottile, troppo bionda, il volto era troppo acutamente intelligente per una donna, i modi troppo liberi per una giovanetta. Anche il nome era ostico ai loro orecchi; si chiamava infatti Kay Adams. Se avesse detto che la sua famiglia si era trapiantata in America duecento anni prima e che il suo era un nome comune, essi si sarebbero stretti nelle spalle.

Tutti gli invitati notarono che il Don non prestava particolare attenzione al terzo figlio. Michael era stato il suo preferito prima della guerra e ovviamente l'erede prescelto per condurre gli affari della Famiglia, quando fosse venuto il momento. Aveva tutta la forza tranquilla e l'intelligenza del grande padre, l'istinto naturale di agire in maniera tale che gli uomini non potevano far altro che rispettarlo. Ma quando era scoppiata la seconda guerra mondiale, Michael Corleone si era presentato volontario nel corpo dei Marines. Facendolo, aveva sfidato l'espresso divieto del padre.

Don Corleone non aveva alcun desiderio, alcuna intenzione di lasciare che il figlio minore morisse al servizio di una potenza a lui straniera. Erano stati corrotti i medici, si erano stipulate intese segrete. Era stato speso un gran mucchio di soldi per prendere le precauzioni necessarie. Ma Michael aveva ventun’anni e non si poteva niente contro la sua caparbietà. Si arruolò e combatté nel Pacifico. Divenne capitano e fu decorato. Nel 1944 la sua fotografia venne pubblicata sulla rivista Life con un resoconto delle sue gesta. Un amico aveva mostrato la rivista a Don Corleone (la famiglia non aveva osato), e il Don aveva grugnito sdegnosamente dicendo: «Ha compiuto quei miracoli per degli stranieri».

Quando Michael Corleone era stato smobilitato all'inizio del 1945, in convalescenza per una ferita invalidante, non sapeva che suo padre ne aveva combinato il congedo. Rimasto a casa per poche settimane, senza consultare nessuno, era poi entrato nel Dartmouth College di Hanover, nel New Hampshire, abbandonando così i suoi. Ora ritornava da loro per il matrimonio della sorella e per presentare la futura moglie, quello sbiadito straccetto di ragazza americana.

 

Michael Corleone stava divertendo Kay Adams, raccontandole aneddoti su alcuni dei più pittoreschi invitati al matrimonio. Dal canto suo era incantato nel vedere come lei trovasse interessanti queste persone e, come sempre, ammaliato dall'intensa curiosità che Kay dimostrava verso tutto ciò che era nuovo e lontano dalla sua esperienza. Alla fine l'attenzione di lei fu attratta da un gruppetto di uomini radunati intorno ad una botte di vino fatto in casa. Erano Amerigo Bonasera, Nazorine il Fornaio, Anthony Coppola e Luca Brasi. Con la solita intelligenza vivace fece osservare che quei quattro non sembravano particolarmente allegri. Michael sorrise.

- No, non lo sono, - disse. -Stanno aspettando di vedere mio padre in privato. Hanno dei favori da chiedergli.

Ed era davvero evidente come tutti e quattro seguissero costantemente il Don con gli occhi.

Mentre Don Corleone era occupato a ricevere gli invitati, una berlina Chevrolet nera si arrestò al lato opposto dello spiazzo asfaltato. I due uomini sul sedile anteriore trassero dei taccuini dalle tasche e, apertamente, presero nota dei numeri di targa delle macchine parcheggiate nello spiazzo. Sonny si girò verso il padre e disse:

- Quei tipi li devono essere piedipiatti.

Don Corleone si strinse nelle spalle:

- Non sono padrone della strada. Possono fare ciò che vogliono.

Il greve viso da Cupido di Sonny divenne rosso dalla rabbia:

- Quei bastardi pidocchiosi non rispettano nulla.

Abbandonò i gradini della casa e attraversò lo spiazzo arrivando sin dove era ferma la berlina nera. Portò irosamente la faccia vicina a quella del conducente, il quale non si ritrasse, ma spalancò il portafoglio per esibire una carta d'identità verde. Sonny indietreggiò senza pronunciare una parola. Sputò in modo che la saliva colpisse la portiera posteriore della berlina e se ne andò. Sperava che il conducente scendesse di macchina per seguirlo nello spiazzo, ma non accadde nulla. Quando raggiunse i gradini di casa disse al padre:

- Quei tipi sono dell'FBI. Stanno prendendo nota di tutti i numeri delle targhe. Sporchi bastardi!.

Don Corleone sapeva chi fossero. Gli amici più intimi e prediletti erano stati avvertiti di partecipare al matrimonio con automobili non di proprietà. E, sebbene disapprovasse la sciocca esibizione di collera del figlio, l'accesso d'ira tornava utile. Avrebbe convinto gli intrusi che la loro presenza era inaspettata e che ad essa non ci si era preparati. Così lo stesso Don Corleone non si irritò. Aveva da tempo imparato che la società costringe a sopportare degli insulti, ma era confortato dalla certezza che in questo mondo viene il momento in cui il più umile degli uomini, se tiene gli occhi aperti, può prendersi la rivincita sul più potente. Era questa certezza che impediva al Don di perdere quell'umiltà che tutti gli amici ammiravano in lui.

Nel giardino dietro la casa, un complessino di quattro strumenti cominciò a suonare. Tutti gli invitati erano arrivati. Don Corleone si dimenticò degli intrusi e guidò i due figli alla festa nuziale.

 

Vi erano ora centinaia di ospiti nell'enorme giardino, alcuni che danzavano sulla piattaforma di legno decorata di fiori, altri raccolti intorno a lunghi tavoli con alte pigne di cibi piccanti e boccali da un gallone di vino rosso genuino. La sposa, Connie Corleone, sedeva in pompa magna accanto allo sposo ad uno speciale tavolo rialzato, con la damigella d'onore, le damigelle e i cerimonieri. Era una scena paesana di vecchio stile italiano. Non secondo il gusto della sposa, ma Connie aveva acconsentito ad un matrimonio «terrone» per accontentare il padre, visto che l'aveva così deluso nella scelta del marito.

Lo sposo, Carlo Rizzi, era nato da padre siciliano e da madre del nord d'Italia, dalla quale aveva ereditato i capelli biondi e gli occhi azzurri. I suoi genitori vivevano nel Nevada e Carlo aveva lasciato lo Stato a causa di un piccolo conto in sospeso con la legge. A New York aveva conosciuto Sonny Corleone e così incontrato la sorella. Don Corleone, naturalmente, aveva inviato amici fidati nel Nevada per sapere, alla fine, che il guaio con la polizia consisteva in una giovanile imprudenza di poco conto con la rivoltella, che poteva facilmente venire cancellata dal casellario, così da lasciare il giovanotto con la fedina penale pulita. Erano anche tornati con dettagliate informazioni sul gioco d'azzardo legale, che avevano interessato fortemente il Don, sulle quali da allora aveva meditato a lungo. Faceva parte della grandezza del Don approfittare di qualsiasi occasione.

Connie Corleone non si poteva considerare una ragazza veramente carina, magra e nervosa com'era e destinata a divenire petulante col passare degli anni. Quel giorno, tuttavia, trasformata dal bianco abito nuziale e dall'impaziente verginità, era talmente radiosa da divenire quasi bella. Sotto al tavolo di legno la sua mano riposava sulla coscia muscolosa dello sposo. La bocca arcuata da Cupido si sporse per inviargli un bacio.

Lo vedeva incredibilmente bello. Carlo Rizzi aveva lavorato come manovale, all'aria aperta del deserto, quand'era molto giovane. Ora aveva dei tremendi avambracci e le spalle gli gonfiavano la giacca del tight. Si scaldò negli occhi adoranti della sposa e le riempi il bicchiere di vino. Era studiatamente cortese, come se fossero entrambi protagonisti di una commedia. I suoi occhi tuttavia continuavano ad andare all'enorme borsa di seta che la sposa teneva appesa alla spalla destra, ora completamente colma di buste di soldi. Quanto conteneva? Diecimila? Ventimila? Carlo Rizzi sorrise. Era solo l'inizio. Dopotutto, era entrato in una famiglia reale. Avrebbero avuto cura di lui.

Fra la folla degli invitati un giovanotto azzimato con la testa lustra da furetto stava anche lui studiando la borsa di seta. Per pura abitudine Paulie Gatto si domandava come avrebbe potuto fare per rubare quel portafoglio. L'idea lo divertiva. Ma sapeva anche che era un sogno ozioso e inutile, come quelli dei ragazzini che immaginano di mettere fuori combattimento dei carri armati con delle pistole giocattolo. Guardò il suo boss, grasso e di mezza età, Peter Clemenza, che faceva piroettare giovani ragazze sull'impiantito di legno della pista da ballo in una rustica e gagliarda tarantella. Clemenza, immensamente alto, immensamente vasto, ballava con tale abilità e scioltezza, col ventre duro che urtava lascivamente il petto delle più giovani e più piccole, che tutti gli invitati lo stavano applaudendo. Donne più anziane lo afferravano per il braccio per essere le prossime dame. Gli uomini più giovani rispettosamente lasciavano sgombra la pista e battevano le mani a tempo con lo sfrenato strimpellare del mandolino. Quando alla fine Clemenza crollò su una sedia, Paulie Gatto gli portò un bicchiere di vino rosso ghiacciato e gli asciugò la fronte sudata da Giove col suo fazzoletto di seta. Clemenza soffiava come una balena mentre ingollava vino ma, invece di ringraziare Paulie, disse bruscamente:

- Non preoccuparti di fare il giudice del ballo, ma pensa al tuo lavoro. Fa' una passeggiata nei dintorni e guarda se tutto è OK.   

Paulie scivolò tra la folla.

L'orchestrina fece una pausa per ristorarsi. Un giovanotto di nome Nino Valenti raccolse un mandolino abbandonato, mise il piede sinistro su una sedia e intonò una grossolana canzone d'amore siciliana. Nino Valenti aveva un bel viso anche se gonfio dal troppo bere, ed era già un pochino ubriaco. Roteò gli occhi e la sua lingua carezzò i versi osceni. Le donne ridevano istericamente eccitate e gli uomini ripetevano col cantante l'ultima parola di ogni strofa.

Don Corleone, notoriamente puritano in queste cose, sebbene la sua robusta moglie stesse allegramente strillando con le altre, disparve con tatto nella casa. Allora Sonny Corleone si diresse verso la tavola degli sposi e sedette accanto alla giovane Lucy Mancini, la damigella d'onore. Erano al sicuro. Sua moglie era in cucina per dare gli ultimi tocchi alla decorazione della torta nuziale. Sonny sussurrò qualche parola all'orecchio della ragazza, che si alzò. Sonny attese qualche minuto e poi come per caso la segui, fermandosi a parlare con un invitato qui e là, mentre si faceva strada fra la folla.

Tutti gli occhi li seguivano. La damigella d'onore, totalmente americanizzata da tre anni di college, era una ragazza ben formata che aveva già una «reputazione». Per tutto il tempo delle prove della cerimonia nuziale aveva civettato con Sonny Corleone in modo provocante e scherzoso, secondo lei lecito poiché era il testimone dello sposo e suo cavaliere nella cerimonia. Ora, tenendo leggermente sollevata la gonna dell'abito rosa, Lucy Mancini entrò in casa sorridendo con falsa innocenza, e corse agilmente su per le scale fino alla stanza da bagno. Si fermò per qualche minuto. Quando usci, Sonny Corleone era sul pianerottolo di sopra; le fece cenno di salire.

Da dietro la finestra chiusa dello «studio» di Don Corleone, una stanza d'angolo leggermente rialzata, Thomas Hagen osservava la festa nuziale nel giardino decorato. Le pareti alle sue spalle erano tappezzate di libri di legge. Hagen era il legale del Don e con funzioni di Consigliori, ossia consigliere, e come tale occupava la posizione subordinata più importante nelle attività della Famiglia. Lui e il Don in questa stanza avevano risolto molti problemi complicati; così, quando vide il Padrino lasciare i festeggiamenti ed entrare in casa, capì che, matrimonio o no, vi sarebbe stato un po' di lavoro per quel giorno. Il Don sarebbe venuto da lui. Poi Hagen scorse Sonny Corleone parlare all'orecchio di Lucy Mancini, la loro commediola e lui che la seguiva nella casa. Hagen fece una smorfia, dibattuto dall'idea di informarne il Don, poi decise per il no. Andò alla scrivania e prese la lista scritta  a mano delle persone a cui era stato accordato il privilegio di incontrare privatamente Don Corleone. Quando il Don entrò nello studio, Hagen gliela porse. Don Corleone annui e disse:

- Lascia Bonasera per ultimo.

Hagen usci dalla porta-finestra e andò direttamente nel giardino, dove i postulanti erano radunati intorno alla botte di vino. Indicò il fornaio, il tozzo Nazorine.

Don Corleone lo salutò con un abbraccio. Da bambini avevano giocato insieme in Sicilia ed erano cresciuti in amicizia. Ogni Pasqua pasticci appena sformati di formaggio fuso e di germi di grano, con le loro croste rosso dorate, grossi quasi come ruote di autocarri, arrivavano a casa di Don Corleone. Per Natale, o in occasioni di compleanni familiari, ricchi dolci cremosi testimoniavano il rispetto dei Nazorine. E tutti gli anni, magri o grassi che fossero, Nazorine pagava volentieri la quota sociale al sindacato dei fornai, organizzato dal Don quand'era giovane. Senza mai chiedere in cambio un favore ad eccezione della possibilità di acquistare al mercato nero tessere OPA per lo zucchero, durante la guerra. Ora per il panettiere era venuto il momento di rivendicare i suoi diritti quale amico leale, e Don Corleone attendeva impaziente di poter soddisfare con grande piacere le richieste.

Offrì al fornaio un sigaro Di Nobili e un bicchierino di Strega, poi gli pose la mano sulla spalla per incoraggiarlo a parlare. Questa era l'impronta dell'umanità del Don: sapeva da amare esperienze quale coraggio ci voglia per chiedere un favore a qualcuno.

Il fornaio raccontò la storia di sua figlia e di Enzo. Un bel ragazzo siciliano; catturato dall'esercito americano; inviato negli Stati Uniti quale prigioniero di guerra; data la parola d'onore di aiutare il nostro sforzo bellico! Un puro e onesto amore era sbocciato fra il fido Enzo e la ben sorvegliata Katherine, ma ora che la guerra era finita, il povero ragazzo sarebbe stato rimpatriato e la figlia di Nazorine sarebbe sicuramente morta col cuore spezzato. Solamente il Padrino Corleone poteva aiutare questa coppia afflitta. Lui era la loro ultima speranza.

Il Don passeggiava con Nazorine su e giù per la stanza, la mano sulla spalla del fornaio, la testa che assentiva comprensiva per sostenere il coraggio dell'uomo. Quando il fornaio terminò, Don Corleone gli sorrise e disse:

- Mio caro amico, metti da parte tutti i tuoi crucci.

Continuò spiegando minuziosamente che cosa si doveva fare. Al membro del Congresso della circoscrizione doveva essere inviata una petizione. Questi avrebbe presentato un emendamento di legge speciale per permettere ad Enzo di divenire cittadino americano. Il progetto sarebbe senz'altro passato al Congresso. Un privilegio che tutti quei bricconi si accordavano l'un l'altro. Don Corleone spiegò che tutto questo sarebbe costato e che il prezzo attuale era di duemila dollari. Egli, Don Corleone, si faceva garante della realizzazione del piano e dell'accettazione del compenso. Il suo amico era d'accordo?

Il fornaio scosse vigorosamente la testa per assentire. Non si aspettava questo grande favore per niente. Era pacifico. Un Atto speciale del Congresso non poteva essere a buon mercato. Nazorine aveva le lacrime agli occhi nel ringraziare. Don Corleone lo accompagnò alla porta, assicurandogli che persone competenti sarebbero state inviate al panificio per sistemare tutti i dettagli e compilare i documenti necessari. Il fornaio lo abbracciò prima di sparire nel giardino.

Hagen sorrise al Don:

- Quello è un buon investimento per Nazorine. Un genero e un aiuto a buon mercato per il resto della vita nel panificio, e tutto per duemila dollari. Fece una pausa. -A chi do questo incarico?

Don Corleone aggrottò la fronte pensoso.

- Non al paesano nostro. Dallo all'Ebreo della circoscrizione vicina. Fa' cambiare gli indirizzi. Ritengo che ci saranno molti casi analoghi ora che la guerra è finita; dobbiamo avere altra gente a Washington che sia in grado di trattarli e senza aumento di prezzo.

Hagen scrisse una nota sul blocchetto: «No membro Congresso Luteco. Tentare con Fischer».

L'uomo che Hagen introdusse per secondo era un caso molto semplice. Si chiamava Anthony Coppola ed era figlio di una persona con la quale Don Corleone aveva lavorato in gioventù nel deposito delle ferrovie. Coppola aveva bisogno di cinquecento dollari per aprire una pizzeria, come anticipo per le attrezzature e per il forno speciale. Per ragioni non approfondite non gli era stato concesso il credito. Il Don mise le mani in tasca e ne tolse un rotolo di biglietti di banca. Non erano sufficienti. Fece una smorfia e disse a Tom Hagen:

- Prestami un centinaio di dollari; te li restituirò lunedì, dopo essere andato in banca.

Il postulante protestò che quattrocento dollari sarebbero bastati, ma Don Corleone gli batté affettuosamente sulla spalla dicendo, in tono di scusa:

- Questo sfarzoso matrimonio mi ha lasciato un po' a corto.

Prese i soldi che Hagen gli tendeva e li passò ad Anthony Coppola insieme al suo rotolo di biglietti.

Hagen guardava con sincera ammirazione. Il Don insegnava sempre che quando un uomo è generoso, deve far vedere che la generosità è personale. Com'era lusinghiero per Anthony Coppola che una persona come il Don ricorresse ad un prestito per dare a lui del denaro! Non che Coppola non sapesse che il Don era milionario, ma quanti sarebbero andati incontro ad un sia pur minimo incomodo per un amico povero?

Il Don alzò il capo interrogativamente. Hagen disse:

- Non è nella lista, ma Luca Brasi desidera vedervi. Si rende conto che non può essere fatto pubblicamente, ma desidera congratularsi con voi personalmente.

Per la prima volta il Don sembrò scontento. La risposta fu indiretta:

- È necessario? - chiese.

Hagen si strinse nelle spalle:

- Voi lo capite meglio di me. È molto grato di essere stato invitato allo sposalizio. Non se l'aspettava certo. Credo che voglia manifestare la sua gratitudine.

Don Corleone annuì e con un gesto accettò che Luca Brasi venisse introdotto.

Nel giardino, Kay Adams fu colpita dall'intensa brutalità stampata sul viso di Luca Brasi. Chiese di lui. Michael l'aveva portata al matrimonio perché lentamente, e senza troppe scosse, apprendesse la verità a proposito di suo padre. Ma sinora lei pareva considerare il Don semplicemente come un uomo d'affari con un po' di pelo sullo stomaco. Michael decise di dirle indirettamente parte della verità. Spiegò che Luca Brasi era uno degli uomini più temuti della malavita dell'Est. La sua grande capacità era che poteva commettere un assassinio tutto da solo, senza complici, il che automaticamente ne rendeva quasi impossibile l'incriminazione e la condanna da parte della legge. Michael fece una smorfia e disse:

- Non so se tutto questo sia vero. Però so che è una specie di amico di mio padre.

Per la prima volta Kay cominciò a capire. Chiese un pochino incredula:

- Non stai per caso insinuando che un uomo come quello lavora per tuo padre?

Al diavolo, pensò. Disse, chiaro e tondo:

- Circa quindici anni fa delle persone volevano impadronirsi del commercio d'importazione dell'olio di mio padre. Tentarono di ucciderlo e quasi ci riuscirono. Luca Brasi si mise in azione. Per farla breve, uccise sei uomini in due settimane e pose fine alla famosa guerra dell'olio d'oliva.

Sorrise come se si trattasse di una facezia.

Kay rabbrividì:

- Vuoi dire che dei gangsters hanno sparato a tuo padre?

- Quindici anni fa, - disse Michael. -Da allora tutto è tranquillo.

Temette di essersi spinto troppo lontano.

- Stai tentando di spaventarmi, - disse Kay. -Vuoi che non ti sposi.

Gli sorrise e gli diede di gomito. «Molto abile», Michael le sorrise di rimando. «Desidero che tu ci pensi sopra», rispose.

- Davvero ha ucciso sei uomini? - continuò Kay.

- Questo è ciò che dichiararono i giornali, - riprese Michael. -Nessuno l'ha mai provato. Ma c'è un'altra storia su di lui, che nessuno dice mai. Si ritiene che sia così terribile che persino mio padre non desidera parlarne. Tom Hagen conosce i fatti, ma non vuole raccontarmeli. Una volta lo provocai e gli dissi: "Quando sarò vecchio abbastanza da sapere quella storia su Luca?" e Tom rispose: "A cent'anni"». Michael sorseggiò un bicchiere di vino.

«Quella si che deve essere una grossa storia. Quello deve essere il vero Luca».

Luca Brasi era davvero un uomo da spaventare il diavolo in persona. Piccolo, tozzo, dal cranio massiccio, la sua presenza faceva suonare le campane a martello. La faccia portava il marchio della violenza. Gli occhi erano castani ma, senza il calore tipico di quel colore, erano di un marrone implacabile. La bocca non era tanto crudele quanto senza vita: sottile e della tinta della carne di vitello.

La fama di violenza di Brasi era terrificante, e leggendaria la sua devozione per Don Corleone. Era, da solo, una delle fondamenta su cui poggiava il potere del Don. Era un tipo raro.

Luca Brasi non temeva la polizia, non temeva la società, non temeva Dio, non temeva l'inferno, non temeva né amava i suoi simili. Ma aveva eletto, aveva scelto, di temere e amare Don Corleone. Portato alla presenza del Don, il terribile Brasi si teneva rigido per il rispetto. Balbettò fiorite congratulazioni e una cerimoniosa speranza che il primo nipote fosse maschio. Poi porse al Don una busta gonfia di soldi come regalo per gli sposi.

Allora era questo che voleva. Hagen notò il cambiamento in Don Corleone. Il Don riceveva Brasi come un re si comporta con un suddito che gli ha reso un grosso servizio, mai familiare ma con condiscendenza regale. Con ogni gesto, con ogni parola, Don Corleone rendeva chiaro a Luca Brasi che era tenuto in alta considerazione. Neppure per un attimo si mostrò sorpreso per il regalo di nozze che veniva presentato a lui personalmente. Capiva.

I soldi in quella busta erano sicuramente di più che in qualsiasi altra. Brasi aveva trascorso molte ore prima di decidersi sull'ammontare della somma, confrontandolo mentalmente con quanto gli altri invitati potevano offrire. Voleva essere il più generoso per mostrare ch'egli aveva il massimo del rispetto, ed era la ragione per cui aveva voluto dare personalmente la busta al Don; una goffaggine sulla quale il Don passò sopra con fiorite frasi di ringraziamento. Hagen vide il viso di Luca Brasi perdere la maschera di violenza, gonfio di orgoglio e di piacere. Brasi baciò la mano del Don prima di uscire dalla porta che Hagen teneva aperta. Prudentemente fece a Brasi un amichevole sorriso, al quale il tozzo uomo rispose con un educato stiramento delle labbra mollicce color vitello.

Quando la porta si richiuse, Don Corleone tirò un lieve sospiro di sollievo. Brasi era l'unica persona al mondo che aveva il potere di renderlo nervoso. L'uomo era come una forza della natura, non completamente controllabile. Doveva essere maneggiato con precauzione come la dinamite. Il Don scrollò le spalle. Anche la dinamite può essere fatta esplodere in modo innocuo, se se ne presenta la necessità. Guardò interrogativamente Hagen.

- È rimasto solo Bonasera?

Hagen accennò di sì. Don Corleone si rabbuiò mentre pensava, poi disse:

- Prima di farlo entrare, di' a Santino di venire qui. Deve imparare alcune cose.

Fuori in giardino, Hagen cercò ansiosamente Sonny Corleone. Disse a Bonasera, che aspettava, di pazientare e andò da Michael e dalla sua ragazza.

- Avete visto Sonny da queste parti? - domandò.

Michael scosse il capo. Accidenti, pensava Hagen, se Sonny si stava lavorando la damigella d'onore da tutto questo tempo, c'era da aspettarsi un sacco di noie. La moglie di lui, la famiglia della ragazza; poteva essere un disastro. Impensierito, si affrettò all'ingresso attraverso il quale aveva visto Sonny sparire quasi mezz'ora prima.

Scorgendo Hagen entrare nella casa, Kay Adams chiese a Michael Corleone:

- Chi è? Me l'hai presentato come tuo fratello, ma il suo cognome è diverso e non ha certo l'aspetto di un italiano.

- Tom vive con noi da quando aveva dodici anni, - disse Michael. -I suoi genitori erano morti e vagabondava per le strade con una brutta infezione agli occhi. Sonny una sera lo portò a casa e semplicemente ci rimase. Non aveva alcun posto dove andare. È vissuto con noi finché si è sposato.

Kay Adams era eccitata. -Tutto questo è veramente romantico, - disse. -Tuo padre dev'essere una persona dal cuore tenero. Adottare qualcuno proprio così, quando aveva tanti figli suoi.

Michael non si preoccupò di far notare che gli emigranti italiani considerano quattro figli una piccola famiglia. Disse solamente:

- Tom non fu adottato. Semplicemente è vissuto con noi.

- Oh, - esclamò Kay, poi domandò con curiosità: -Perché non lo avete adottato?

Michael rise:

- Perché mio padre disse che sarebbe stato irrispettoso per Tom cambiare il nome. Irrispettoso verso i suoi genitori.

Videro Hagen far passare Sonny dalla porta-finestra nello studio del Don e poi piegare il dito verso Amerigo Bonasera.

- Perché infastidiscono tuo padre con gli affari in un giorno come questo? - chiese Kay.

Michael rise di nuovo.

- Perché sanno che per tradizione nessun siciliano può rifiutare una richiesta nel giorno del matrimonio della figlia. E nessun siciliano rinuncia ad una occasione come questa.

 

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